Archivi della Categoria: ‘Altro’

LE SCOMODE VERITÀ – Recensione di Giuseppe Lalli giornalista al libro “Le scomode verità nella II Guerra mondiale” di Vincenzo di Michele

22 Marzo 2024

LE SCOMODE VERITÀ DI VINCENZO DI MICHELE

di Giuseppe Lalli

Vincenzo Di Michele, già autore di successo di libri come Io, prigioniero in Russia, Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso, L’ultimo segreto di Mussolini, Cefalonia, io e la mia storia, Alla ricerca dei dispersi in guerra, per citarne solo alcuni, ci presenta la sua ultima fatica di ricercatore instancabile di episodi dell’ultima guerra mondiale, dramma che ha segnato due generazioni di italiani, quella dei nostri padri e quella dei nostri nonni, e i cui echi terribili ancora non si spengono. Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale è il titolo del libro, composto di undici brevi ma densi capitoli, appena pubblicato per i tipi di Edizioni Vincenzo Di Michele.

Nel libro, accanto ad episodi già noti e controversi (come la complicità, che l’autore ipotizza con argomenti convincenti, tra i comandi italiani e quelli tedeschi in ordine alla rocambolesca liberazione di Mussolini prigioniero sul Gran Sasso il 12 settembre del 1943, nel contesto di una nazione allo sbando; o la tragedia, di poco posteriore, dei soldati italiani a Cefalonia all’indomani dell’armistizio di Cassibile, un eccidio immane di migliaia di soldati per la maggior parte poco più che ventenni che a giudizio di Di Michele, a dispetto di una certa retorica fiorita sul terribile episodio, «si poteva e doveva evitare »; o la sorte dei soldati in Russia, che l’autore del libro presenta come una pagina rimossa della storia nazionale), trovano posto argomenti scottanti e che mettono a dura prova il giudizio morale, come quando l’autore, al di là delle dirette  responsabilità dei gerarchi nazisti, invita il popolo tedesco stesso a fare i conti con la propria coscienza; o quando non esita a mettere sul banco degli imputati il governo americano per lo sgancio, nell’agosto 1945, delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che provocarono  la morte istantanea di più di centomila persone e una scia di effetti collaterali sui sopravvissuti che durarono anni.

Un’ecatombe che Di Michele assimila ai crimini contro l’umanità, che si poteva, a suo parere, evitare e che, ben al di là delle esigenze strategiche contingenti, ai vertici politici e militari americani apparve utile – egli asserisce – come ostentazione di una potenza devastante da usare come deterrente nei confronti di futuri potenziali avversari.

Nella maggior parte del libro l’autore sciorina davanti ai nostri occhi una galleria degli orrori che lascia il lettore col fiato sospeso. Nel primo capitolo si parla delle donne schiavizzate dai nazisti e in particolare dell’atteggiamento sprezzante nei riguardi delle prostitute polacche. 

Sul fronte orientale – si legge in una delle prime pagine – i tedeschi violentarono le donne russe […] (e) in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito.

Si apprende che nella stessa Germania, ridotta a fine conflitto in un immenso campo di macerie, con milioni di morti e pochi uomini giovani sopravvissuti, molte furono le donne tedesche che,

…pur di dare un sostegno economico ai lori figli, intrapresero relazioni sessuali con i soldati delle forze alleate. Ragazze, vedove furono costrette a prostituirsi in cambio di soldi, calze, cioccolato, vari altri generi alimentari e capi di abbigliamento.

Accanto a sconosciute storie di ordinaria disumanità da parte dei nazisti (esperimenti, come quelli di Josef Mengele, che nulla avevano di scientifico e molto di gratuita malvagità), l’autore non manca di denunciare esperimenti spregiudicati su animali anche da parte degli eserciti alleati.

Nello scritto, tra il molto altro, si nomina di passaggio Adolf Eichmann, il “burocrate dello sterminio” catturato dai servizi israeliani e giustiziato, vicenda che ispirò alla filosofa Hannah Arendt  il libro La banalità del male; si parla di Matthias  Defregger, capitano della Wehrmacht, diventato poi vescovo, coinvolto nel giugno 1944, nella sua qualità di comandante, nell’eccidio di Filetto, frazione dell’Aquila, di cui ricorrono quest’anno ottanta anni; si rievoca la misteriosa scomparsa dello scienziato Ettore Majorana, avvenuta a fine marzo 1938.

E poi, a margine di tragedie che in parte si conoscevano, ci sono vicende meno note, drammi non conosciuti nella loro effettiva dimensione e spesso di raccapricciante gravità, anche a carico di soldati degli eserciti di liberazione, fatti che l’autore asserisce essere noti ai comandi alleati, come quello degli stupri praticati, anche nei territori italiani, dai marocchini, truppe assoldate dall’esercito francese.

Un quadro agghiacciante quello che descrive Di Michele. Quasi si stenta a credere di quanta disumanità sia capace il genere umano. L’impressione che si ricava dalla lettura di queste pagine è che la seconda guerra mondiale ha visto l’intelligenza al servizio del male come mai era accaduto nella storia della civiltà umana, e tutto questo è potuto avvenire nel cuore della civile Europa.

Le categorie economiche e gli stessi concetti filosofici sono insufficienti a spiegare tanto abominio, tanto spregio della persona umana. Lo stesso credente ha voglia di gridare: Dio, dov’eri?  «Questa non è guerra, questa è… un’altra cosa, noi non lo possiamo capire » diceva Eduardo De Filippo riferendosi alla seconda guerra mondiale in una sua celebre commedia, interpretando la parte un padre di famiglia napoletano richiamato alle armi, e concludeva il suo appassionato racconto dicendo, quasi implorando, ai suoi: «Facciamo il bene! Facciamo il bene!». C’è da chiedersi, di fronte ai tanti tamburi di guerra che risuonano nel mondo e nel cuore stesso del nostro continente, in che misura l’umanità abbia appresa la tremenda lezione del secondo conflitto mondiale.

È un libro, quest’ultimo lavoro di Vincenzo Di Michele, che fa riflettere, e rispetto al quale non si può rimanere indifferenti. Una compassione, che a tratti diventa sdegno, percorre tutte le pagine. È prima di tutto un atto d’accusa nei confronti della guerra, anche quella apparentemente giusta, che si porta dietro un carico enorme di disumanità, e finisce per far apparire assai labile il confine stesso degli umani sentimenti.

Lo scritto di Di Michele evoca altresì una dinamica che vediamo agire, con maggiore o minore intensità, alla fine di ogni guerra, che è sempre, a ben riflettere, guerra civile, perché interna al genere umano: la comprensibile esigenza di giustizia finisce per confondersi con il desiderio della vendetta, e gli oppressi di ieri possono diventare gli oppressori di domani, come lucidamente ammoniva Simone Weil.

Un’altra amara verità emerge dalla lettura di queste pagine, che ha a che fare con quelle che Giambattista Vico, nella Scienza nuova, chiama «boria delle nazioni» e «boria dei dotti», tendenze assai ricorrenti nella storia e a cui non sfugge di certo il secolo che ci siamo lasciati alle spalle: l’idea che ad una nazione sia assegnato dagli dei o da Dio una missione da compiere (da qui le piazze inneggianti e i sacerdoti benedicenti); mentre i “dotti” di Vico sono stati, nel Novecento, tutti quei professionisti del consenso adusi a servire con la loro penna il dittatore di turno, nonché tutti quegli intellettuali propensi a mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra.

Vincenzo Di Michele non guarda in faccia a nessuno: dove vede il male lo denuncia e lo documenta, attenendosi alla più scrupolosa verità dei fatti (verum-factum, per rimanere a Vico). Del resto, chi, che non muova da una preconcetta visione ideologica, può negare che il chiaroscuro è il colore dominante nella storia della vicenda umana?

Questi pensieri ed altri si ricavano dall’interessante scritto di Di Michele, dal quale si apprendono molte altre notizie che non si conoscevano e che al lettore non vanno anticipate. Il libro è di lettura assai scorrevole: una prosa scarna ed efficace come i fatti che vi si raccontano, a tratti incalzante, sempre chiara, realistica e aliena da ogni pedanteria.

 

I DRAMMI TERRIBILI DELLE GUERRE – Recensione di Franco Presicci giornalista del giornale ” IL GIORNO” al libro “Le scomode verità nella II Guerra mondiale” di Vincenzo di Michele

14 Marzo 2024

I DRAMMI TERRIBILI DELLE GUERRE

Recensione al libro Le scomode verità nella II Guerra mondiale, di Vincenzo Di Michele

di Franco Presicci

MILANO – La guerra non è un’avventura, come qualcuno ha sentenziato. Non è un’esperienza di vita. La guerra sconvolge uomini e paesi, li incenerisce, li annienta. La guerra lascia ferite e traumi che non si dimenticano più. Il tuono delle bombe, il sibilo delle sirene, le corse ai rifugi antiaerei, le maschere antigas per i capi fabbricato, i pali messi a sostenere i soffitti dei pianterreni per evitare che un ordigno li faccia sprofondare, la paura, il terrore, gli urli delle mamme, i pianti dei bambini, il coprifuoco, le tessere annonarie, le fucilate contro persone innocue, gli stupri. Sentii dire che la guerra ha una funzione economica, anche perché disincrementa le nascite e assottiglia le popolazioni. Cinismo, disumanità, ignoranza, e magari interesse in chi durante la guerra fa lievitare il conto in banca.

Ho novant’anni e negli anni della guerra ero in grado di assimilare ciò che stava succedendo. Con i miei familiari ero sfollato a Martina Franca, dove arrivavano le voci dei disastri, tutte inquietanti, ansiogene. E dal piazzale del trullo la notte potevamo vedere l’orizzonte che s’infiammava. Lì c’era Taranto. Da bambini ci dicevano: arrivano gli americani, i liberatori, chissà se passeranno da qui; e se lo fanno che sarà di noi? Sarà un bene o un male? I tedeschi, passati da alleati a nemici, evacuavano, facendo altre distruzione, altri morti, altri feriti: per dispetto, per rabbia, per crudeltà.

Gli americani ci “regalarono” prima le bombe, poi le chewing gum, la cioccolata, le sigarette Lucky strike, il woogie boogie. Alcuni sposarono le nostre donne, altri le lasciarono spegnendo in loro il sogno americano, altre vennero stuprate e lasciate sulla strada. Ricordo la borsa nera, il pane razionato, gli ordigni atomici su Hiroshima e Nagasaki … Terminato il conflitto, la gente sentì il bisogno di distrarsi, di dimenticare, di disperdere l’angoscia, affollando le balere. Dimenticò davvero?

Poi abbiamo vissuto quasi 80 anni di pace, con l’illusione che mai più l’uomo avrebbe perduto i lumi della ragione. E invece ci ritroviamo nell’inferno con l’Ucraina quasi rasa al suolo e la striscia di Gaza infiammata, con la tregua che balugina tra un giorno e l’altro, insanguinati. La televisione manda immagini terrificanti: palazzi crollati, sventrati, scheletri di cemento, gigantesche macerie su migliaia di vittime, che i superstiti bagnano di lacrime. Ci domandiamo con paura: E se questa follia coinvolge altri Paesi? E se un potente fuori di testa, andando oltre le minacce, decide di sganciare la bomba atomica? Sarebbe l’apocalisse.

L’uomo dissolve ciò che tocca. Chi odia la guerra e chi la teme sono impotenti, indignati, terrorizzati, disgustati nel vedere chi ordina la distruzione di massa sorridere davanti alle telecamere fra le mimose, simbolo di delicatezza, virtù delle donne, di riscatto da una condizione di ingiusta inferiorità. Che c’entra con la mimosa l’uomo che annulla un Paese con disumana freddezza? E gli altri? Hanno le loro colpe.

L’abbiamo già vissuta la guerra in casa: non vorremmo che proseguisse, sconfinasse, accrescendo i lutti e il dolore. Immagino la sorpresa di Arrigo Benedetti quando entrò a Tombolo e incontrò i contadini che si tenevano lontano dai campi che erano stati minati; e nelle baracche degli Alleati erano ammonticchiati farina, birra in scatola, pizza preconfezionata, zucchero…

Curzio Malaparte, futuro autore de “La pelle” (uscirà nel ‘49), descrisse i drammi di Napoli tra “segnorine” e sciuscià, fame, miseria, disastri, tormenti, una città meravigliosa, quasi unica, sconvolta. A Livorno i tedeschi disseminarono le strade di penne stilografiche e altri oggetti trasformati in ordigni che strapparono dita o mani o gambe, la vita a chi ebbe l’imprudenza di toccarli. La cattiveria, la brutalità fatte persona. Oltre a Napoli, Palermo, Roma, Pescara, Livorno… bombardate. A Milano la pioggia di fuoco mutilò la Scala, la Galleria Vittorio Emanuele, piazza San Fedele, demolì una scuola elementare a Greco, facendo un centinaio di morti. Ricordi non in ordine di data, ma lancinanti.

A scatenare la memoria non sono stati soltanto i conflitti in Ucraina e nella striscia di Gaza, ma anche un libro di Vincenzo Di Michele intitolato “Le scomode verità nascoste nella seconda guerra mondiale” (Edizioni Vincenzo Di Michele, Roma, 2024), interessante, stile limpido, scorrevole. Di verità nascoste ce ne sono state davvero tante. Un esempio? Le foibe. Occultate per anni. Migliaia di corpi gettati negli anfratti, nelle grotte per sottrarli alla scoperta. Quante donne sono state violentate nella seconda guerra mondiale, in casa, in strada, ovunque. Quanti soprusi sono stati perpetrati contro le donne, ridotte allo stato di schiave anche nei posti di lavoro.

 

Sul fronte orientale i tedeschi violentarono le donne russe, mentre in Ucraina e Bielorussia rastrellarono e sterilizzarono le giovani donne e poi le assoldarono per soddisfare i desideri sessuali del loro esercito… La Germania era totalmente distrutta e in una situazione di grave indigenza”. Pagine crude, senza voli stilistici. Si inoltrano nei crimini nazisti, negli orrori dei campi di concentramento, dove la vita non aveva alcun valore, dove l’annientamento di massa era fatto sistematicamente: una vita si trasformava in fumo che usciva dai comignoli dei forni crematori. “Tu passerai per il camino”. E migliaia di esseri umani ci passarono.

Di Michele dà spazio ai racconti delle donne ebree che sono riuscite a salvarsi dai campi recintati col fil di ferro spinato, con ferite sul corpo e nell’anima che non si cancelleranno mai. “Avrei voluto essere un cane, perché ai nazisti piacevano i cani”. I tedeschi non avevano una coscienza o un barlume di ragione… Consideravano subumani i prigionieri: “tutti esseri deboli, fisicamente tarati e sempre con le mani alzate in segno di resa, perennemente propensi alla sconfitta e al pianto”.

Nel loro comportamento squilibrato i soldati di Hitler non facevano altro che infliggere violenze e umiliazioni. “Aizzavano i cani che mordevano i genitali agli uomini e il seno alle donne. A seguire premiavano queste bestie con carezze e coccole in maniera smisurata”. Uomini e donne per la fame e le scudisciate erano scheletri con gli occhi infossati. Uomini e donne, persone, certi di non sopravvivere fino al giorno dopo. I racconti di chi ce l’ha fatta sono tremendi. Umiliante è il numero che portano ancora sul braccio: numero che sta a testimoniare la condizione in cui erano ridotti: un numero e basta. Senza un nome. Senza più una storia. Fantasmi in cammino, chi aveva ancora la forza di muovere le gambe per fare un passo.

 

Alla fine della guerra, davanti ai tribunali i responsabili di questi crimini si difesero dicendo che avevano obbedito agli ordini. Questo li assolve? Kappler fuggì dal Celio, un giorno di agosto. Forse raggomitolato in una valigia? L’ipotesi s’impose. Ma chi fu complice della fuga? Erich Priebke anche dinanzi al tribunale mantenne la sua boria senza allentarla un momento, sicuro di aver operato bene. Almeno così quando lo si vedeva comparire sul piccolo schermo. Chi è stato complice delle fughe dei nazisti che dovevano rendere conto delle loro azioni? Di Michele risponde senza esitazioni, senza dubbi.

C’è un uomo – lo ricorda anche Di Michele – che tenacemente, instancabilmente, cercò ovunque i criminali nazisti, acciuffandone non pochi. Si chiamava Simon Wiesenthal, ed era stato liberato dagli alleati nel maggio del ‘45 dal campo di sterminio di Mauthausen. Di Michele incalza. Episodio dopo episodio, storia dopo storia. Compresa quella della scomparsa di Ettore Majorana, il fisico scomparso la sera del 25 marzo ‘38, a 31 anni. Era molto stimato da Enrico Fermi, che scrisse al duce per sollecitarne la ricerca.

ll libro contiene anche una serie di immagini, tra cui quelle terribili delle bombe su Hiroshima (il 6 agosto) e su Nagasaki (il 9) del 1945. Scorrono anche quelle di Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio all’Istituto di Fisica e Chimica di Parigi, e scene sulle brutalità della guerra. Ce n’è abbastanza. Speriamo di non vedere più affisso sui muri il manifesto con la scritta “Tacete, il nemico vi ascolta”. E speriamo di non vedere più nemmeno la foto della donna anziana vestita di nero che si aggira tra le macerie del suo paese.

Milano, 10 marzo 2024

11 aprile 2019 ore 18,30 presentazione del libro” Animali in guerra Vittime innocenti” al Due Ponti Sporting club

21 Marzo 2019

Per non dimenticare il cuore , il sacrificio e le ingiustizie subite da tutti gli animali

I soldati, nella corsa spietata verso il fronte, frustavano e bastonavano gli umili quattrozampe e come se non bastasse li punzecchiavano con la baionetta. I cavalli con la lingua penzoloni annaspavano nel traino di carri ponderosi e i muli, caricati sulla soma a più non posso, allargavano le loro froge e sprofondavano nel fango.

Sul fronte aereo i colombi, consegnando ordini e contrordini, venivano uccisi dai cecchini dell’esercito nemico mentre sui campi di battaglia i cani si infilavano sotto i cingoli dei carrarmati nemici e saltavano in aria a causa dell’esplosivo che avevano indosso. Gli orsi, usati come cavie per il collaudo dei sedili degli aerei, erano scaraventati in volo mentre i gatti, imbottiti di ordigni, venivano lanciati sulle navi.

Persino le mandrie di buoi furono impiegate come animali kamikaze: correvano sui campi cosparsi di mine per farle esplodere.

E poi le sperimentazioni messe in atto per la creazione di esseri ibridi attraverso incroci tra zebre e cavalli, alci e buoi, bisonti e mucche, topi e criceti, lepri e conigli e addirittura fra l’uomo e la scimmia per generare un esercito di esseri invincibili.

Tutti questi animali innocenti, compresi quelli uccisi con selvaggia crudeltà nei mattatoi, vennero trascinati a forza in una guerra che non gli apparteneva e non ebbero alcuna scelta se non quella di obbedire al vile egoismo umano.

Intervista di Paolo Tolotti in occasione conferimento PREMIO DI CULTURA E VITA ALPINA

17 Giugno 2009

PREMIO DI CULTURA E VITA ALPINA ASSEGNATO AL GIORNALISTA ROMANO VINCENZO DI MICHELE

IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA” RAGGIUNGE LE 20.000 COPIE VENDUTE

Il Premio di Cultura e Vita Alpina, assegnato ad aprile 2009 presso l’Oratorio dei Disciplinanti a Finale Ligure, è stato istituito dall’ing. Alberto De Cia per onorare la memoria del padre, Gen. Di Divisione Amedeo De Cia, un grandissimo alpino che ha avuto una lunga carriera partecipando a tre guerre e meritando sul campo numerose onorificenze per il valoroso e talora eroico comportamento: fu tra l’altro tra i primi a varcare il Piave nella riscossa di Vittorio Veneto successiva alla disfatta di Caporetto subita dall’esercito italiano durante la prima guerra mondiale. Sul finire della sua carriera il Generale De Cia ebbe il comando della Scuola Allievi Ufficiali di Bassano, fino a raggiungere i massimi incarichi militari in ambito alpino. Il premio “Amedeo De Cia” è rivolto a coloro che ripropongano alle attuali generazioni i valori della cultura alpina, ad uomini di montagna che si siano distinti in gesti di speciale sensibilità umana tesi a perpetuare lo spirito alpino e ad alpini in armi che con il loro agire ricalchino i tradizionali valori degli alpini. Quest’anno il premio è stato assegnato al giornalista romano Vincenzo Di Michele per l’attenta opera letteraria delle memorie del padre, Alfonso Di Michele, reduce dalla campagna di Russia.

La Famiglia Di Michele, infatti, originaria di Pietracamela, nell’Appennino Abruzzese, vide nel 1942 l’arruolamento nel corpo degli Alpini, Battaglione L’Aquila, del figlio minore Alfonso appena ventenne, con destinazione il fronte Russo. La spedizione militare dell’ARMIR, L’Armata Italiana in Russia voluta da Benito Mussolini, si rivelò uno dei peggiori disastri militari della storia italiana con circa 30.000 morti sui campi di battaglia e 60.000 morti nei brutali campi di concentramento russi, dai quali ben pochi prigionieri poterono fare ritorno a casa, riportandone inoltre segni indelebili nel corpo e nello spirito. Alfonso fu uno dei 10.000 reduci che poté fare ritorno al suo paese dopo quattro anni di prigionia trascorsi tra i campi di concentramento Siberiani e i campi di lavoro nel Kazakistan, nei quali venne sistematicamente negata ai prigionieri, assieme ai più elementari diritti, anche la dignità di persone umane.  Nella biografia di Alfonso Di Michele si ripercorre con gli occhi di uno dei diretti protagonisti, una pagina di storia italiana ed europea, che ha il pregio di far riflettere il lettore di oggi sul significato della guerra e della pace oltre che sul valore degli alpini che vi presero parte. Dopo aver fatto ritorno alla sua terra ed alla sua famiglia, Alfonso fu costretto a convivere per tutta la vita con i malanni derivanti dalle sofferenze e dalle privazioni patite e nascose dentro sé stesso la memoria indelebile della sua prigionia, condivisa nel corso della sua vita unicamente con l’amico Dante Muzi, a sua volte reduce dalla Russia. Abbiamo rivolto all’autore di “Io, prigioniero in Russia”, Vincenzo Di Michele, alcune domande:

Come è nata l’idea dell’opera?: Mio padre ha sempre raccontato in modo generico e distaccato la sua avventura in Russia come se quella storia non gli appartenesse; ma io intuivo che i suo scarni resoconti, ripetuti in famiglia a cantilena, nascondevano ben altro. Quando dopo la sua scomparsa ho potuto leggere il suo diario di quegli anni ne sono rimasto profondamente toccato e ho sentito l’esigenza di rintracciare l’amico Dante Muzi, del quale avevo sentito parlare da parte di mio padre, per poter raccogliere ulteriori testimonianze.

Che cosa l’ha spinta a raccontare dei fatti della vita di suo padre ad oltre sessant’anni dal loro svolgimento?: Mi sono reso conto dal diario e dalle testimonianze raccolte, di quali vicende avessero affrontato mio padre ed i suoi sfortunati commilitoni, ed ho sentito il dovere oltre al desiderio di pubblicare quest’opera, per testimoniare ed onorare la memoria di mio padre e dei tanti che come lui hanno partecipato alla campagna di Russia senza averne potuto raccontare l’esito.

Qual’è stata l’accoglienza riservata al suo libro?: Ho ricevuto diversi riconoscimenti ma ciò che mi ha colpito maggiormente è l’interesse riscontrato da parte dei lettori. Fino ad oggi sono state vendute 20.000 copie di “Io, prigioniero in Russia”; attualmente sto pensando alla possibilità di trarne una versione cinematografica..

Ha intenzione di dare un seguito ad “Io, prigioniero in Russia”?: Si sono attualmente impegnato nella raccolta di materiale inedito in merito alle vicende dei reduci dalla Russia. Chiunque voglia raccontare la propria storia o quella dei propri familiari può mettersi in contatto con me tramite il sito internet www.vincenzodimichele.it. Tra l’altro attraverso il mio sito ho già potuto mettere in contatto familiari di militari scomparsi in Russia con reduci che a distanza di anni hanno potuto raccontare di loro.
Vincenzo Di Michele con “Io, prigioniero in Russia” ha ricevuto inoltre il premio Baiocco alla memoria storica ed è stato encomiato dal Presidente della Repubblica Italiana.

Vincenzo Di Michele presenta in conferenza stampa la manifestazione  Estate in XX

5 Giugno 2009

5-Giugno-2009 | 15:30 | Invia questo articolo ad un amico

Una manifestazione culturale, sportiva, di intrattenimento ma anche di incontri e dibattiti. Questo sarà la terza edizione dell’evento Estate in XX presentata questa mattina nella cornice della Torretta Valadier di Ponte Milvio da Vincenzo Di Michele alla presenza di Lavinia Mennuni, Consigliere Comunale con delega alle Pari Opportunità, Gianni Giacomini, Marco Perina e Giuseppe Calendino rispettivamente Presidente, Assessore alla cultura e Presidente della commissione cultura del XX Municipio.

“Un fiore all’occhiello dell’offerta estiva ai cittadini di Roma Nord”. Così ha definito la manifestazione Marco Perina “un appuntamento ormai fisso, atteso e molto partecipato non solo dai residenti di Grottarossa ma di tutti i quartieri limitrofi”.Già, perché Estate in XX, con il patrocinio del Municipio,  si tiene dal 12 al 21 Giugno proprio in via di Grottarossa 207, sulla Cassia, nel famoso Parco della Pace, un polmone di verde nel quale i bambini dalle 16 in poi potranno fare sport in aree attrezzate e giocare mentre la sera, ai più grandi, saranno offerte gratuitamente serate di allegria e di divertimento, concerti musicali e musica popolare, insomma eventi per tutti i gusti. “Ma anche dibattiti ed incontri con le istituzioni” ha tenuto a precisare Giuseppe Calendino “perché Estate in XX vuole essere anche opportunità di aggregazione dei cittadini intorno ai temi del quartiere, della qualità della vita di questo spicchio di Roma, dei problemi e delle difficoltà di tutti i giorni”.

Max Gigliucci, responsabile artistico della manifestazione, ha sottolineato invece la qualità del programma che vede ogni sera un appuntamento diverso a dimostrazione del grande sforzo creativo ed organizzativo. “Uno sforzo ammirevole” ha aggiunto Calendino “perché tutta l’organizzazione si basa sul lavoro volontario di una ventina di ragazzi mossi solo dall’amore per il territorio e dalla voglia di darsi da fare per la comunità” .

Insomma, le premesse perché Estate in XX sia una terza edizione di successo ci sono tutte. Il Presidente Gianni Giacomini nel definire “un ottimo lavoro quello di Giuseppe Calendino, tenace ispiratore della manifestazione” ha promesso che non mancherà di passarvi diverse serate. E lo ha promesso anche Lavinia Mennuni, colpita dalla capacità organizzativa che questo territorio può esprimere. Ma Mennuni e Giacomini saranno in ottima compagnia, perché in coda alla conferenza stampa abbiamo raccolto voci di altre significative presenze …

Personale