Archivi della Categoria: ‘News’

Le famiglie Italiane ancora piangono i Loro cari dispersi in Russia

29 Marzo 2025

La ritirata, i corpi mai ritrovati, le lettere mai arrivate, i lager sovietici e le fosse comuni: Migliaia e migliaia di soldati dissolti nel nulla

Tra le vicende più oscure della Seconda Guerra Mondiale si nasconde una pagina troppo poco raccontata, un dramma collettivo coperto da silenzi e polvere ideologica: quello degli italiani sul fronte russo. Migliaia di uomini mandati al macello e poi dimenticati, perché la loro sorte si incrociava con il marchio indelebile di una guerra combattuta “dalla parte sbagliata”.

Il gelo della steppa fu solo il primo tradimento. La ritirata, i corpi mai ritrovati, le lettere mai arrivate, i volti mai tornati. Una tragedia che non ha avuto né medaglie né memoria ufficiale, solo oblio.

Eppure, come spesso accade, qualcuno ha deciso di raccontare ciò che per decenni è rimasto sottotraccia. La storia non è fatta solo dai vincitori, ma anche da chi ha il coraggio di riscriverla alla luce dei fatti. È da questo intento che nasce un’opera che affonda le mani in ciò che tanti preferiscono non ricordare: “IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA” scritto dallo storico Vincenzo Di Michele è il libro che ci ha aiutato ad aprire gli occhi su questa vicenda, una fonte preziosa per comprendere pienamente gli orrori della seconda guerra mondiale.

Un fronte gelido e dimenticato: la partenza verso l’ignoto

Partirono con l’illusione di andare incontro a una missione gloriosa. Si raccontava che sarebbero bastati pochi mesi per riportare a casa una vittoria. Invece si ritrovarono in un inferno, un fronte tanto lontano quanto spietato, dove il gelo non era solo climatico, ma anche umano e politico.

Vennero arruolati migliaia di italiani, spediti al fronte orientale a combattere una guerra che non comprendevano fino in fondo. Alpini, artiglieri, carristi, fanti e volontari: un mosaico di storie, paure e speranze presto frantumate sotto il peso della realtà. Il fiume Don diventò una linea sottile tra la vita e la morte, mentre la neve inghiottiva i sogni e il tempo si cristallizzava nel freddo.

E l’Italia, troppo impegnata a riscrivere il proprio destino, lasciò che questi uomini cadessero nell’oblio prima ancora che nella neve.

Non era solo il freddo a uccidere

I soldati italiani in Russia affrontarono temperature che sfioravano i -40 gradi, con scarponi inadeguati per quei territori, uniformi leggere e razioni di cibo che non bastavano a sfamare neanche un cane randagio. Dormivano nella neve, marciavano tra i cadaveri, combattevano con armi inadatte contro un nemico implacabile e un freddo che non sembrava conoscere limiti.

Chi tornò parlò di campi disseminati di uomini morti congelati. Le voci dei sopravvissuti raccontano storie disconosciute dalla narrazione ufficiale: né eroi né martiri, solo uomini esausti.

La ritirata si lasciò dietro una scia di morte. I documenti li chiamano “dispersi”, ma molti furono semplicemente ignorati. Tante madri e mogli non ebbero una tomba su cui piangere i propri cari, per anni attesero speransose un possibile ritorno a casa, ma nessuno si presentò mai a portare buone notizie o la conferma di una perdita, solo silenzio.

Ricordare è un atto di giustizia

C’è una verità che non si trova nei manuali scolastici, ma che brucia nelle testimonianze raccolte tra i superstiti. Parole smarrite tra i ghiacci, che oggi tornano a farsi sentire grazie a chi ha scelto di riportarle alla luce. Le storie degli italiani in Russia non sono favole di guerra, ma fendenti di realtà.

C’erano ragazzi che non avevano ancora vent’anni, mandati al macello e abbandonati a se stessi. C’erano interi reparti dispersi nel nulla, come se la neve li avesse inghiottiti. E poi c’erano gli altri, quelli tornati ma mai veramente accolti, perché l’etichetta politica di “fascisti” aveva tolto loro il diritto alla sofferenza.

La guerra li aveva distrutti nel corpo e il dopoguerra finiti nello spirito. Non una medaglia, non un grazie, per i dispersi nemmeno una tomba.

Ricordarli oggi è un atto di giustizia, non solo storica ma umana.

Restituire la dignità a chi è stato dimenticato

Quando la Storia ufficiale tace, c’è bisogno di chi ha il coraggio di svelare verità troppo a lungo dimenticate. E questo è ciò che fa il libro “IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA”, un’opera che non si limita a raccontare, ma scava, indaga, svela. Un lavoro che restituisce dignità a chi è stato dimenticato e porta alla luce vicende che, per troppo tempo, sono state nascoste sotto il tappeto della convenienza.

Si tratta di un’opera che mette il lettore davanti a uno specchio: quello della coscienza collettiva. Leggerlo è come aprire un cassetto chiuso da anni e trovare dentro verità che ancora fanno male, ma che hanno bisogno di essere guardate in faccia.

Un libro che si fa testimone. Un autore Vincenzo Di Michele che, da buon storico, si fa ponte tra ciò che è stato e ciò che ancora oggi ci riguarda.

 

Lo scandalo degli esperimenti medici nella Seconda Guerra Mondiale, una verità sconvolgente raccontata da Vincenzo Di Michele

20 Marzo 2025

Non era il dott.Mengele,il solo che si macchiò di orrori senza pietà : c’erano anche gli altri eserciti in guerra

Durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre il mondo bruciava sotto i bombardamenti e milioni di vite venivano spezzate, dietro cancelli sbarrati e mura impenetrabili si consumava un’altra tragedia, fatta di aghi, bisturi e camere fredde, dove l’uomo diventava oggetto, carne da sezionare, organismo su cui misurare fino a che punto un essere umano potesse sopportare dolore e terrore. La scienza, in quel contesto, indossò il camice dell’orrore e si piegò agli istinti più bassi, travestiti da ricerca.

Gli scienziati di diversi schieramenti – non solo nazisti – si cimentarono in esperimenti che definire disumani è riduttivo. Furono anni in cui il confine tra ricerca e sadismo si fece talmente sottile da sparire quasi del tutto. Nessuno era più una persona: corpi, numeri, statistiche. Il male aveva trovato il modo di rendersi metodico.

Una scienza impazzita dietro il filo spinato

Non ci furono solo i laboratori di Auschwitz guidati da Josef Mengele, benché la sua figura resti emblematica. In quella stagione di follia, la scienza stessa sembrava aver smarrito la rotta, accettando di trasformarsi in uno strumento di tortura sistematica. I medici, quelli che avrebbero dovuto curare, finirono col tradire la loro vocazione, affondando le mani nella carne viva dei prigionieri, nel disperato tentativo di estrarre verità che nessuno aveva chiesto.

Josef Mengele: il volto della crudeltà in camice bianco

Il suo nome è diventato sinonimo di morte e crudeltà. Il dottor Mengele, ad Auschwitz, si aggirava tra i prigionieri come un predatore tra le prede. Era ossessionato dai gemelli, dai nani, dai deformi. Cercava soggetti che, a suo dire, potessero offrirgli uno spunto per migliorare la razza ariana. Li torturava con esperimenti che rasentavano l’assurdo: iniezioni negli occhi per cambiare il colore dell’iride, trasfusioni reciproche fino all’esaurimento delle forze vitali, mutilazioni eseguite a sangue freddo, senza anestesia. Alcuni gemelli venivano cuciti l’uno all’altro per creare “siamesi artificiali”. Altri morivano lentamente, infettati di proposito con malattie devastanti.

Mengele non cercava risposte scientifiche. Cercava, piuttosto, una soddisfazione sadica, travestita da studio.

L’inferno giapponese: Unità 731

Se la crudeltà nazista aveva un volto, quella giapponese aveva un numero: 731. In Manciuria, nell’Unità 731, gli scienziati nipponici si dedicarono con spietata dedizione alla ricerca sulle armi biologiche. Ma quella era solo la facciata. Dietro c’era il terrore puro: vivisezioni senza anestesia, amputazioni di arti sani, donne incinte squarciate vive per osservare lo sviluppo fetale, esperimenti di congelamento condotti fino alla morte. I prigionieri, chiamati “maruta” (pezzi di legno), venivano deliberatamente infettati con peste bubbonica e colera. Legati a pali in aperta campagna, erano bersagli per testare bombe batteriologiche.

Un orrore che non conobbe giustizia. Molti degli scienziati dell’Unità 731 scambiarono la loro immunità con il trasferimento dei loro studi agli Stati Uniti. Il patto col diavolo si firmava anche con la penna americana.

Il gelo negli occhi: esperimenti di congelamento nazisti

I cieli del fronte orientale erano freddi, letali. La Luftwaffe aveva bisogno di sapere quanto potessero resistere i propri piloti in caso di ammaraggio forzato nel Mare del Nord. La risposta la cercarono nei corpi nudi dei prigionieri di Dachau. Venivano immersi in vasche d’acqua gelida, monitorati mentre il calore della vita fuggiva lentamente dalle loro vene. Alcuni morivano dopo un’ora. Altri, quelli più sfortunati, sopravvivevano abbastanza da diventare cavie per esperimenti di rianimazione: bagni bollenti, impacchi, o il famigerato “riscaldamento umano”.

In questo ultimo caso, donne zingare venivano costrette a sdraiarsi nude accanto ai corpi rigidi dei congelati, cercando di riportarli alla vita col solo calore del loro corpo. Non si trattava solo di scienza, ma di una perversa messinscena di potere e sottomissione. E c’è di peggio: si testava se l’odore acre del sudore potesse stimolare il risveglio delle vittime.

La corsa alle armi invisibili: l’isola della morte e i laboratori sovietici

Gruinard Island, una macchia di terra scozzese, divenne sinonimo di morte invisibile. Qui, durante il conflitto, gli scienziati britannici sperimentarono l’uso dell’antrace come arma batteriologica. Le pecore morirono in pochi giorni. Il terreno rimase contaminato per quasi mezzo secolo. La guerra chimica era già cominciata e nessuno sembrava intenzionato a fermarla.

Dall’altra parte del continente, l’Unione Sovietica finanziava progetti che sembravano partoriti da menti allucinate. Il biologo Il’ja Ivanov tentò di creare un ibrido uomo-scimmia, un soldato instancabile e insensibile al dolore. Il sogno di Stalin era un esercito di automi biologici, capaci di ubbidire senza pensare. Il progetto fallì miseramente, ma resta il segno di un’epoca che aveva perso ogni barlume di moralità.

Per approfondire

C’è un libro che apre senza timore coperchi rimasti troppo a lungo sigillati. Si tratta di LE SCOMODE VERITÀ NASCOSTE NELLA II GUERRA MONDIALE del Dott. Vincenzo Di Michele. Non è una semplice cronaca, ma un viaggio attraverso l’oscurità di un conflitto che ha segnato l’umanità. Si affrontano i temi scomodi, le verità che fanno male e che pochi hanno il coraggio di raccontare.

Il Dott. Di Michele raccoglie testimonianze, documenti e riflessioni, mostrando con chiarezza le ombre che hanno avvolto anche le cosiddette “nazioni civilizzate”. Tra i capitoli più intensi, proprio quello sugli esperimenti umani: pagine che inchiodano la coscienza e obbligano a guardare negli occhi l’orrore.

LE COLPE E LA VERGOGNA DI TUTTO IL POPOLO TEDESCO NEI CRIMINI DEI NAZISTI: SAPEVANO TUTTO E ANCHE LORO PARTECIPARONO AL GENOCIDIO DI MASSA DEGLI EBREI

12 Marzo 2025

Mi sono limitato a obbedire agli ordini È la frase che risuonò più e più volte nelle aule dei processi del dopoguerra, come una cantilena recitata da uomini che cercavano di sottrarsi alle proprie responsabilità. Ma è davvero possibile ridurre a un semplice atto di cieca obbedienza il coinvolgimento di un intero popolo nei crimini più efferati della storia? Sapevano e hanno taciuto? Oppure hanno scelto di non sapere?

Durante gli anni del Terzo Reich, la propaganda e il terrore si intrecciarono in un meccanismo perfetto: un sistema in cui il consenso si otteneva attraverso il controllo dell’informazione e l’uso strategico della paura. L’ideologia nazista non si impose con la sola violenza, ma si diffuse come un veleno sottile, insinuandosi nelle coscienze, normalizzando l’orrore, trasformando uomini comuni in ingranaggi di un progetto di sterminio.

Il male non ha sempre il volto di un tiranno, né si manifesta solo nei bunker dove si decidono le sorti di milioni di vite. A volte il male è silenzioso. Si annida nelle stanze delle alte sfere, dove si stappa champagne mentre fuori si muore, ma anche nelle strade delle città, nelle case, nei cuori di chi preferisce guardare altrove. È la complicità della normalità che rende possibile l’orrore.

Questa è una storia scomoda, una di quelle che spesso restano ai margini della narrazione ufficiale. Ma le verità nascoste, prima o poi, trovano sempre il modo di venire a galla.

A riaprire questo vaso di Pandora è LE SCOMODE VERITÀ NASCOSTE NELLA II GUERRA MONDIALE di Vincenzo Di Michele, un libro che non si accontenta delle versioni ufficiali e che non teme di affondare le mani nella polvere del passato. Pagina dopo pagina, il velo cade, rivelando fatti che non fanno sconti a nessuno. Per chi crede di sapere già tutto sulla Seconda Guerra Mondiale, questa lettura è una doccia gelata. E per chi ha il coraggio di affrontare la realtà senza filtri, è un viaggio da cui non si torna indifferenti.

La complicità del popolo tedesco

Non è un mistero che un’ideologia, per sopravvivere, ha bisogno di consenso. Ma quando quel consenso si ottiene attraverso il controllo capillare delle menti, il confine tra accettazione e manipolazione si fa sottile. La Germania nazista fu un laboratorio perfetto di condizionamento di massa. Non servivano solo le armi, serviva costruire un pensiero unico, soffocando il dissenso prima ancora che potesse nascere.

Dalla cattedra di un professore alle pagine di un giornale, dai palchi delle adunate fino ai banchi di scuola, la propaganda era ovunque. Ogni parola, ogni immagine, ogni discorso aveva un obiettivo preciso: creare una realtà fittizia in cui il regime appariva come l’unica via possibile. I tedeschi vedevano crescere la propria nazione, vedevano il lavoro tornare, i salari aumentare, il benessere tornare dopo anni di stenti e il prestigio del Paese risollevarsi dalle ceneri della Prima Guerra Mondiale. E quando un popolo affamato si trova improvvisamente con il piatto pieno, è più facile che chiuda gli occhi su come quel cibo sia arrivato sulla tavola.

Ma c’era di più. La paura era il collante che teneva tutto insieme. Chi alzava la testa, chi osava dubitare, chi non applaudiva abbastanza forte rischiava di sparire, inghiottito nel buio di una cella o spedito nei campi di rieducazione. La gente imparò a tacere, a non fare domande, a non guardare oltre la cortina di fumo che avvolgeva le atrocità del regime. Il terrore diventò abitudine, il silenzio una forma di autoconservazione.

Eppure, le voci circolavano. Si sapeva, ma si faceva finta di non sapere. I treni che partivano carichi di uomini, donne e bambini diretti verso l’ignoto non passavano inosservati. I racconti dei soldati in licenza, le dicerie sussurrate nei mercati, le lettere giunte dal fronte, tutto suggeriva che dietro il velo della propaganda si stesse consumando qualcosa di spaventoso. Ma l’apparato nazista aveva costruito una società in cui anche il solo porsi delle domande poteva diventare un pericolo. E così, mentre la macchina della morte girava senza sosta, molti si limitarono a guardare altrove.

Le SS e il culto della ferocia: uomini forgiati per uccidere

Se il Terzo Reich aveva bisogno del consenso del popolo, per eseguire gli ordini più atroci servivano uomini disposti a tutto. Non semplici soldati, ma esecutori addestrati a spegnere ogni empatia, a considerare l’orrore una semplice routine. Le SS nacquero con questo scopo: trasformare uomini comuni in strumenti di morte.

Non si entrava a far parte di questa macchina infernale per caso. Bisognava incarnare l’ideale del perfetto tedesco, essere alti, sani, puri di sangue. Il matrimonio? Concesso solo dopo un’attenta selezione genealogica. La famiglia stessa diventava un’estensione del Reich. Un’istituzione controllata, studiata, approvata. Un uomo delle SS non apparteneva a sé stesso, ma al progetto nazista.

Ma non bastava la selezione. Bisognava eliminare ogni residuo di umanità. L’addestramento non si limitava alle armi. Ogni recluta veniva sottoposta a una costante opera di disumanizzazione. Nessuna debolezza era tollerata. Nessuna esitazione era ammessa. Uccidere, punire, torturare: il dolore altrui doveva diventare irrilevante.

E così, giorno dopo giorno, il sangue versato non era più un crimine, ma un dovere. Fucilare, deportare, sterminare: tutto eseguito con disciplina ferrea, senza domande, senza esitazioni. Anzi, per molti, quasi con orgoglio. Un’aberrazione della mente umana, dove la crudeltà diventava una virtù e il fanatismo l’unica legge.

Fu questo esercito di spietati carnefici a rendere possibile il genocidio. Le SS non furono solo il braccio armato del nazismo: furono il suo cuore pulsante, il suo ingranaggio perfetto. Senza di loro, la follia di Hitler sarebbe rimasta solo un’idea.

LA GUERRA SPORCA DEI VINCITORI: La verità sulle operazioni segrete delle forze alleate e la fuga dei Criminali nazisti per sfuggire alla pena di morte grazie all’aiuto degli americani

12 Marzo 2025

La guerra era finita . Restava ora da processare i criminali nazisti, ma  molti di loro sparirono nel nulla: chi cambiava nome, chi fuggiva senza lasciare traccia. Gli architetti dello sterminio, uomini il cui nome faceva tremare intere generazioni, non solo scamparono alla giustizia, ma lo fecero con una facilità disarmante.

Treni che correvano nella notte, confini varcati sotto mentite spoglie, documenti nuovi di zecca stampati con una firma compiacente. L’Europa del dopoguerra, con i suoi equilibri precari e la sua fame di stabilità, offriva più vie di fuga di quante la gente fosse disposta ad ammettere. Alcuni trovarono rifugio tra le montagne dell’Alto Adige, altri approdarono sulle coste del Sud America, e dietro le loro fughe c’erano mani insospettabili: prelati troppo indulgenti, ufficiali con poca memoria e governi già proiettati verso una nuova partita politica.

C’è chi dice che la storia la scrivano i vincitori. Vero, ma certe verità restano sepolte sotto troppi strati di ipocrisia. Il libro Le scomode verità nascoste nella II Guerra Mondiale di Vincenzo Di Michele si spinge oltre la narrazione ufficiale, rivelando dettagli che fanno scricchiolare la facciata del dopoguerra.

Questo approfondimento è stato scritto prendendo come riferimento le ricerche e i contenuti presenti nel libro, che getta luce su eventi spesso taciuti, offrendo una prospettiva storica accurata e documentata.

Alto Adige, il luogo perfetto in cui nascondersi

L’Alto Adige è stata una terra di confine, né troppo italiana né del tutto tedesca, sospesa in un limbo politico che la rese il perfetto rifugio per chi aveva bisogno di sparire. Non serviva essere un grande stratega per capire che tra quei passi montani si aprivano vie di fuga sicure. Strade battute da contrabbandieri, rifugi nascosti tra le rocce, locande dove nessuno faceva domande di troppo. I criminali nazisti in fuga sapevano bene che da lì si poteva arrivare lontano. Argentina, Paraguay, Spagna: destinazioni diverse, un solo punto di partenza.

L’ultimo scorcio di guerra trasformò il confine altoatesino in una zona grigia, dove le regole erano più elastiche e i controlli più lenti. A fine aprile 1945, quando il Reich si sgretolava sotto il peso dell’inevitabile sconfitta, le SS e i collaboratori più compromessi non pensarono neppure per un istante di arrendersi. Bastava cambiare divisa, trovare un nome nuovo, aspettare il momento giusto. Per chi sapeva muoversi, quelle montagne erano più sicure di qualsiasi bunker.

Nel caos del dopoguerra, il confine tra giustizia e complicità si fece sottile come la carta velina. Mentre si celebravano i processi ai criminali di guerra, molti si mettevano in viaggio con un biglietto di sola andata per un nuovo inizio.

Documenti, coperture e nuove identità

Fuggire non era abbastanza. Serviva una nuova identità, una storia credibile, un pezzo di carta che certificasse un’esistenza mai vissuta. E qui entravano in gioco le reti di protezione, un intreccio di complicità dove si mescolavano religiosi, funzionari e insospettabili benefattori.

Molti di questi documenti arrivavano direttamente dalla Croce Rossa Internazionale, che dopo la guerra iniziò a rilasciare permessi di viaggio per gli sfollati. Un gesto umanitario? Sì, in teoria. Ma nella pratica, le maglie dei controlli erano così larghe che tra i profughi veri si infilavano anche gerarchi nazisti, ufficiali delle SS e collaboratori del Reich. Bastava una dichiarazione generica, qualche informazione fumosa e il passaporto era servito.

Non tutti si limitavano a un’identità di copertura. Alcuni si reinventavano completamente. Un ex ufficiale delle SS diventava un tranquillo commerciante, un criminale di guerra si trasformava in un modesto meccanico. La nuova vita iniziava con un biglietto per l’Argentina, il Brasile o il Paraguay. E una volta laggiù, chi si sarebbe mai preso la briga di scavare nel passato?

Le operazioni segrete delle forze alleate

I giornali parlavano di giustizia e condanne esemplari. Eppure, dietro le quinte si muoveva un’altra partita, più oscura, più ambigua, più difficile da raccontare.

Alcuni criminali di guerra non finirono sulla forca, ma al servizio di nuove cause. Chi aveva progettato armi innovative diventò improvvisamente un esperto ricercato, chi conosceva segreti del regime divenne un informatore di valore, chi era stato un fervente anticomunista si trasformò in un alleato prezioso nella guerra fredda che già si profilava all’orizzonte.

Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il pragmatismo vinse sulla giustizia. L’intelligence americana e quella britannica non si fecero troppi scrupoli: alcuni ufficiali nazisti furono reclutati, protetti e persino stipendiati. Avevano combattuto dalla parte sbagliata, ma nel nuovo scacchiere internazionale erano pedine troppo preziose per essere eliminate.

E così, mentre il mondo si indignava per i crimini scoperti nei campi di sterminio, c’erano uomini che, con un nuovo nome e una nuova uniforme, continuavano il loro lavoro come se nulla fosse accaduto. Un silenzio assordante, coperto da trattative segrete e dossier scomparsi. La guerra fredda aveva appena aperto le danze, e gli ex nazisti erano già parte del copione.

 

 

 

Verità scomode della II guerra mondiale

5 Marzo 2025

Recensione de il giornale di Vicenza (Online) (PDF)

Storie scomode della Seconda Guerra Mondiale: le donne vittime silenziose del conflitto

Le guerre si vincono sul campo e si raccontano sulla carta dei vincitori. Tra le pieghe del Secondo Conflitto Mondiale, c’è un capitolo scritto con il sangue e il silenzio delle donne. Un capitolo che non trova spazio nei manuali scolastici, troppo scomodo, troppo brutale, troppo vero.

Si celebrano gli eroi, si glorificano le battaglie, si elencano i trattati di pace. Ma chi parla di loro? Di quelle donne trascinate via, ridotte a merce di scambio, usate e poi gettate via come vestiti logori? I vincitori si spartivano il mondo, mentre loro perdevano tutto: la dignità, la libertà, il diritto di esistere senza essere un corpo su cui sfogare frustrazione e violenza.

C’è chi queste storie le ha raccolte, ricostruite, riportate alla luce. Le Scomode Verità Nascoste nella II Guerra Mondiale dello storico Vincenzo Di Michele non è un libro per chi cerca rassicurazioni. È una lettura che brucia, che smonta certezze, che costringe a guardare negli occhi una realtà troppo a lungo insabbiata. Non è solo Storia, è Controstoria. Da questo libro abbiamo estratto alcune verità scomode che meritano di essere raccontate e tramandate.

Prostitute, schiave e vittime di un sistema spietato

La Seconda Guerra Mondiale non è stata solo trincee e bombardamenti, ma un teatro di atrocità dove i corpi delle donne diventavano bottino di guerra. Nessuno si tirava indietro. Nazisti, giapponesi, alleati… tutti, in un modo o nell’altro, si sono sporcati le mani.

I bordelli militari non erano certo una novità, ma quello che accadde tra il 1939 e il 1945 superò ogni limite. Le prostitute non erano più persone, ma strumenti di controllo, oggetti di piacere per uomini che marciavano con un’idea di purezza razziale in testa e una brutalità senza confini nelle vene. In Germania, i soldati erano obbligati a usare il preservativo, subivano controlli sanitari e persino iniezioni disinfettanti nei genitali. Le donne, invece, venivano lasciate a marcire, condannate a una vita di sfruttamento e malattie.

La Polonia divenne un mattatoio. Le donne polacche erano considerate inferiori, dunque qualsiasi violenza su di loro non era solo permessa, ma incoraggiata. Abusi di gruppo, rastrellamenti, torture. C’erano regole non scritte: se una donna veniva infettata da una malattia venerea, la sua vita non valeva più niente. Nella città di Bromberg, 38 prostitute vennero massacrate in un solo giorno. Troppo rischioso curarle. Troppo pericoloso lasciarle in vita. Un problema da risolvere con una pallottola in testa.

E poi c’erano gli esperimenti. Corpi femminili usati come cavie per testare ogni tipo di aberrazione. Alcune venivano sterilizzate senza anestesia, altre venivano infettate deliberatamente per studiare gli effetti delle malattie. Un laboratorio di orrori, una discesa negli abissi più profondi della crudeltà umana.

Senza ombra di dubbio, la guerra non è mai stata solo una questione di armi. È stata, prima di tutto, una macchina che ha divorato tutto ciò che trovava sul suo cammino. E tra le sue vittime più dimenticate ci sono loro: donne che non combatterono mai, ma che furono sconfitte ogni giorno, senza mai avere possibilità di arrendersi.

L’orrore sul fronte orientale e i bordelli militari giapponesi

Se l’inferno avesse avuto un volto, avrebbe portato il nome delle “donne di conforto“. Un’espressione grottesca, un paravento lessicale dietro cui si nascondeva un sistema mostruoso. Il Giappone non si limitò a invadere territori, ma razziò anche i corpi delle donne, trasformandoli in strumenti di piacere per i suoi soldati.

Era un progetto studiato a tavolino. L’esercito imperiale non poteva permettersi troppi stupri casuali: il rischio era che l’odio delle popolazioni locali esplodesse in ribellioni incontrollabili. Meglio “organizzare” la questione. Così nacquero i bordelli militari, disseminati nei territori occupati. Più di 200.000 donne furono ingannate, strappate alle loro case con false promesse di lavoro. Fabbriche? Servizi domestici? Nulla di tutto questo. Una volta arrivate a destinazione, venivano incarcerate e costrette a subire decine di abusi al giorno.

Nessuna speranza di fuga, nessuna possibilità di rifiutarsi. Le porte dei bordelli si aprivano solo per lasciar entrare nuovi soldati. I dottori dell’esercito giapponese passavano per controlli sanitari, ma non erano lì per aiutare. Molte di loro furono abusate persino dai medici, vittime di un circolo vizioso senza via d’uscita.

C’erano poi i rastrellamenti nelle campagne. I comandi militari pretendevano che i governanti locali fornissero donne ai soldati, come fossero parte del bottino di guerra, alla stregua di armi e rifornimenti. Per chi cercava di ribellarsi, la punizione era immediata. Uccisioni sommarie, torture, rappresaglie sulle famiglie.

E chi sopravviveva? Le cicatrici non erano solo nel corpo, ma nell’anima. Alcune persero la fertilità a causa degli abusi ripetuti e delle malattie. Molte morirono nel silenzio. Quelle che riuscirono a tornare a casa si trovarono davanti un altro nemico: l’emarginazione. Nessuno voleva ascoltare le loro storie. Nessuno voleva riconoscere la loro sofferenza.

La disperazione delle donne tedesche nel dopoguerra

La guerra si era conclusa, ma per molte donne tedesche un incubo peggiore era appena cominciato. Le città ridotte in macerie, gli uomini falciati al fronte, la fame che divorava le strade. E poi c’erano loro: le sopravvissute, lasciate sole a ricostruire, con nulla in mano e troppo da dimenticare.

Ma il bisogno non lascia scelta. Chi aveva figli da sfamare non poteva permettersi il lusso dell’orgoglio. Non si trattava più di patriottismo, né di politica. Era la fame a dettare le regole. Così, mentre i vincitori marciavano per Berlino con le loro divise immacolate, le donne tedesche imparavano che la loro unica moneta di scambio era il proprio corpo.

Non servivano trattative, né promesse. Calze di nylon, qualche sigaretta, un pezzo di cioccolato. Tanto bastava. Gli Alleati distribuivano preservativi, ma la realtà non si fermava alla propaganda. Le gravidanze aumentavano. Gli aborti clandestini mietevano vittime quanto le bombe. Alcune morivano dissanguate, altre lasciavano i neonati nei vicoli, sperando che qualcuno li trovasse prima dei topi.

E poi c’era il disprezzo. Quelle donne non erano vittime, non nella narrazione ufficiale. Erano “puttane del nemico”, marchiate con un’etichetta che non si sarebbe più scollata di dosso. Le famiglie le ripudiavano, le comunità le isolavano. Nessuno si chiedeva cosa significasse trovarsi in quella posizione. Nessuno voleva sapere. Il giudizio era più facile della comprensione.

Le violenze sulle donne italiane: la tragedia dimenticata

Le violenze subite dalle donne italiane per mano delle truppe coloniali francesi rappresentano una delle pagine più oscure del dopoguerra. Un’ombra lunga, silenziosa, soffocata dal pudore e dalla paura.

Tutto iniziò nel 1943, con l’avanzata degli Alleati lungo la penisola. A fianco degli eserciti che promettevano la liberazione, c’erano loro: i reparti marocchini dell’esercito francese, soldati senza regole, uomini lasciati liberi di sfogare i propri istinti su un popolo che non aveva più nulla con cui difendersi. Arrivati in Ciociaria, si trasformarono in predatori. Paesi interi vennero saccheggiati, uomini uccisi, donne stuprate senza pietà.

A Esperia, una cittadina ridotta in cenere dalla guerra, 700 donne furono violentate in pochi giorni. Madri, figlie, bambine. A Vallemaio, due sorelle e un’anziana di sessant’anni vennero costrette a soddisfare un intero plotone di soldati. Chi cercava di difendersi finiva massacrato. Chi non cedeva subito veniva preso con la forza. Nessuno era al sicuro.

Il fenomeno fu così vasto che servì persino un nome per definirlo: “le marocchinate”. Un termine che racchiude anni di dolore, famiglie distrutte, esistenze segnate per sempre. Molte donne rimasero incinte, ma nessuno era disposto ad accettare quei figli. Gli aborti clandestini si moltiplicarono, le malattie veneree si diffusero come un’epidemia. Chi sopravvisse portò dentro di sé ferite invisibili, ma impossibili da rimarginare.

Questa non fu una semplice “conseguenza della guerra”. Fu un crimine taciuto, accettato, quasi giustificato. I comandi francesi lo sapevano, gli alleati ne erano consapevoli, ma nessuno mosse un dito. Qualcuno cercò di fermarli, ma venne zittito in fretta. I soldati avevano vinto una battaglia dura, e per loro lo stupro era parte del premio.

Senza ombra di dubbio, il silenzio è stato il secondo crimine commesso contro queste donne. La guerra è finita, ma per loro la giustizia non è mai arrivata. Solo dolore, vergogna e la certezza di essere state abbandonate.

Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale

13 Gennaio 2024
Il nuovo libro di Vincenzo Di Michele
Recensione dello storico Giuseppe Lalli nella rivista Italiani nel Mondo

Recensione de il giornale di Vicenza

Recensione de il giornale di Bergamo

Vincenzo Di MicheleDurante il secondo conflitto mondiale, i militari erano costretti all’utilizzo del preservativo e a subire cure mediche, compresa una soluzione disinfettante applicata nella zona genitale. Al contrario, le donne erano considerate semplici oggetti da sfruttare.

Durante il massacro degli ebrei, i soldati al servizio di Hitler si giustificarono in modo ignobile affermando: “Ho solamente seguito gli ordini”. Al tempo stesso, l’intera popolazione tedesca abbassò lo sguardo, rifiutandosi di vedere la realtà. Una donna sopravvissuta ai campi di concentramento raccontò: “Avrei preferito essere trattata come un cane. Ci incitavano ad attaccare e ci morsicavano genitali e seno, ricevendo poi eccessive dimostrazioni di affetto e carezze come ricompensa”.

Il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki è stato una decisione imprudente, pianificata e disastrosa da parte dell’esercito americano. Questa minoranza al potere ha rifiutato di considerare alternative valide proposte da una vasta maggioranza di persone ragionevoli, tra cui scienziati e figure di spicco.

Inoltre, emergono altre verità scomode, come la misteriosa scomparsa dello scienziato italiano Ettore Majorana, consapevole del grave pericolo legato all’arma atomica, e la complicità del governo statunitense nella fuga dei criminali nazisti, inclusi i loro scienziati. L’impiego di questi ultimi da parte degli Stati Uniti è stato uno strumento nella prossima lotta tra gli USA e l’URSS nell’era della guerra fredda.

Copertina le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale (PDF)
Recensioni “Le scomode verità nascoste nella II Guerra Mondiale” (PDF)
Recensione de il giornale di Vicenza (PDF)
Recensione de il giornale di Bergamo (PDF)

Il racconto del capitano della Lazio su Franz Beckenbauer nella loro esperienza calcistica al Cosmos, dal libro di Vincenzo Di Michele: “Pino Wilson vero capitano d’altri tempi”

11 Gennaio 2024

Vincenzo Di MicheleArrivai al Cosmos all’età di 33 anni, nel pieno della mia maturità calcistica. Appartenendo a una squadra di vertice del campionato e avendo giocato in Nazionale e anche ai mondiali del ’74, pensavo in quei tempi, di aver oramai raggiunto il mio apice calcistico. Invece fu proprio  il campo a smentirmi grazie al  contatto gomito a gomito con quei campioni, ogni giorno negli allenamenti. Pelé: una storia a parte. Ogni volta che arrivava al campo, con umiltà e dedizione si metteva a palleggiare per più di un’ora. Vedevi quella palla accarezzata e coccolata dai suoi piedi che prendeva traiettorie funamboliche. Per non parlare della tecnica e della potenza balistica di Carlos Alberto, il capitano della Nazionale brasiliana campione del mondo nel 1970 in Messico. Però il giocatore che mi diede la possibilità di arricchire ulteriormente il mio bagaglio tecnico,poiché giocava nel mio stesso ruolo, è stato proprio Franz Beckenbauer. Con lui affinai la chiave di lettura dell’azione in via anticipata giacché la sua notevole intelligenza tattica, gli permetteva una visuale di ampio raggio.

A proposito di Beckenbauer, come non raccontare questa storia?

In quel campionato, non giocai nella mia solita posizione. Del resto,nel ruolo di libero non giocava uno qualsiasi, bensì un certo Franz Beckenbauer. Quel giorno si  giocava una partita decisiva per l’ assegnazione del titolo. Faceva molto caldo e faticavamo molto in campo e le energie venivano sempre meno. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, dopo una prima parte della gara giocata in maniera pessima della nostra squadra, mi avvicinai a Chinaglia e gli dissi che Beckenbauer era in giornata no. Praticamente,la sua prestazione stava condizionando negativamente l’andamento di tutta la squadra. Appresa la mia comunicazione, Giorgio dapprima mi guardò un po’ perplesso, poi replicò:
“Ma sei sicuro?”.

Gli risposi: “Certo che sì!”. Quindi, si allontanò.

Dopo circa un minuto lo vidi mentre si defilava in un colloquio appartato con l’allenatore Eddie Firmani. Udii solamente Chinaglia che testualmente stava così ribattendo al nostro allenatore, in modo imperioso: “Sì! Il tedesco! Hai capito bene! Deve uscire il tedesco!”. Come rientrammo in
campo, notai che Beckenbauer era stato sostituito. Fortunatamente nel secondo tempo la partita si tramutò positivamente e la vincemmo, ma non ho ancora il coraggio di pensare alla possibile reazione di Chinaglia e a tutte le conseguenze per via di quella forzata esclusione di Beckenbauer, nel caso l’avessimo persa.

Grazie Pino, il tuo ricordo continua a vivere nei tuoi racconti

Vincenzo Di Michele

Copertina e retrocopertina libro Pino Wilson

Copertina e retrocopertina libro Pino Wilson

Il 16 luglio 2021 alle ore 18 Vincenzo Di Michele al Castello Caetani di Trevi nel Lazio, presenta la II edizione del Premio Mario Mariozzi

14 Luglio 2021


Il 16 luglio 2021 alle ore 18  Vincenzo Di Michele al Castello Caetani di Trevi nel Lazio,  presenta la II edizione del Premio Mario Mariozzi

IL Pallone nel cuore , l’uomo e le storie  nella II edizione del premio Mario Mariozzi.

Con la partecipazione di Francesco Repice (radiocronista RAI) Giuseppe Incocciati (tecnico ed ex calciatore Milan e Napoli), Maurizio Stirpe ( Presidente del Frosinone), Massimo Pulcinelli (Presidente dell’Ascoli),  Giacomo Faticanti ( calciatore as Roma) Americo Mancini (giornalista gr1 RAI).

Interverrà Antonio Tajani, Presidente della Commissione per gli Affari Costituzionali Del Parlamento europeo

Presenterà l’evento lo scrittore Vincenzo Di Michele e l’appuntamento è fissato per venerdì 16 Luglio al Castello Caetani di Trevi nel Lazio,

Novità editoriale – La nuova versione del libro “Io prigioniero in Russia” con oltre 55.000 copie vendute e vincitore di premi storici è stata pubblicata con Edizioni Vincenzo Di Michele

12 Luglio 2021
Nel suo diario autografo un giovane alpino della divisione
Julia racconta la sua cruda avventura durante la seconda
guerra mondiale. La sua infanzia; la partenza in guerra; la
prima linea in battaglia con i russi che ubriachi di vodka si
gettavano con ferocia all’assalto frontale contro le truppe
italiane; la marcia verso i campi di concentramento e la
lunga permanenza nei gulag sovietici e infine l’insperato
ritorno a casa dopo quattro duri anni.
 
GENNAIO 1943: IL mio ingresso al Campo di prigionia di TAMBOV
Se avessero scritto su un cartello all’ingresso di quel maledetto
lager,“Benvenuti all’inferno”, la realtà non sarebbe poi stata
tanto diversa. Nel periodo della mia permanenza a Tambov, che
va da gennaio 1943 a maggio del 1943, si riscontrò un tasso di
mortalità del 90%. Detto in parole povere, ogni cento uomini
che entrarono in quel campo, solo dieci e abbastanza malconci
rimasero indenni. “E anche io, malgrado tutte le disavventure,
sono stato tra quei fortunati baciati dalla sorte”.

 

Intervista di Lide magazine New York in esclusiva con Vincenzo Di Michele

28 Aprile 2021

Qui puoi leggere l’intervista

Personale