Archivi Autore

Al Due ponti Sporting Club: un pomeriggio di ricordi, aneddoti ed emozioni con i protagonisti che hanno fatto grande la storia della Lazio, per la presentazione del libro Pino Wilson vero Capitano d’altri tempi di Vincenzo Di Michele

16 Maggio 2013

Che momenti, che ricordi, che emozioni in un pomeriggio di maggio al Circolo Due Ponti. Vero Pino? Quando Wilson con il suo classico aplomb decisamente inglese ha preso il microfono in mano e ha iniziato a ripercorrere i tratti salienti della sua gloriosa carriera calcistica, a un certo punto, si è concesso una piccola pausa tutta sua.

Di fronte a lui, c’erano i giocatori del 1974, le telecamere, i giornalisti, Radio Sei, Gianni Giacomini, Marco Perina, Robero Cantiani, Giorgio Mori, Tony Santagata, Carlo Priolo, Giancarlo Governi, Emanuele e Pietro Tornabuoni, Radio sei, i laziali Pino Capua, Tony Malco, Antonio Buccioni, Alessandro Cochi, Mauro Mazza, Totò Lopez , Franco Recanatesi, Valerio Cassetta, Lucilla Nicolanti, Stefano Pantano, Gianluca La Penna, gli amici, i tifosi e tanti altri. ” Io lo sapevo che andava a finire così ” ha commentato commosso, il capitano storico della Lazio. Lui che nella sua carriera ha vestito per ben 400 volte la maglia della Lazio vincendo uno scudetto; lui che ha giocato nella Nazionale Italiana e anche ai campionati del mondo in Germania nel 1974; lui che ha avuto a fianco giocatori del calibro di Pelè, Chinaglia, Beckenbauer e Carlos Alberto; lui, il dott. Pino Wilson; lui, il capitano della lazio, il baluardo l’estremo difensore, questa volta si è dovuto arrendere alla sua storia e ai toccanti ricordi dei tempi passati, tutti contenuti in un manoscritto di 173 pagine scritto da Vincenzo Di Michele, dal titolo ” Pino Wilson Vero Capitano d’altri tempi” editore Fernandel. “Pino ha dato tanto alla Lazio”, ha commentato Giancarlo Oddi mentre Bruno Giordano ha detto che doveva e poteva essere solo lui il capitano della Lazio poichè era il vero leader della squadra. Michelangelo Sulfaro ha ricordato i primi tempi che Wilson arrivò alla Lazio e di come sin dagli inizi, mostrò la sua forte personalità . Toccante il commento di Massimo Maestrelli, figlio del maestro Tommaso: “ Non è stato un caso se mio padre lo abbia scelto come capitano di quella squadra. ”

Invece Felice Pulici, il portierone dello scudetto, ha raccontato un divertente aneddoto su quando nel lontano 1972- allora giocatore militante nel Novara in serie B – approdò a Roma nella squadra della Lazio. In sostanza appena arrivato, fu obbligato dai nuovi compagni di squadra – e in primis da Wilson – ad acquistare una macchina più prestigiosa al pari dei suoi colleghi calciatori.

Eh si! Era proprio una squadra mattana e garibaldina divisa nello spogliatoio ma unita in campo; uno spaccato di 11 forti personalità tutte fumantine, orchestrate da un grande maestro che si chiamava Tommaso Maestrelli. Il capitano però era un certo Giuseppe Wilson. Non a caso lo chiamavano ” Il padrino “.

Suor Paola e la Lazio espugnano il teatro Sistina con una grande serata all’insegna della beneficenza

15 Maggio 2013

Con Suor Paola in panchina e Wilson Capitano: la grande vittoria della Lazio al Teatro Sistina

Ne è passato di tempo . Eccome se ne è passato . Son quasi 40 anni; più precisamente son proprio 39, eppure , “Quelli del 74 e non solo” non hanno dimenticato come si deve scendere in campo, cosa si deve fare per portare a casa la vittoria e soprattutto come lottare allo strenuo delle forze per l’impresa più ardua: quella della vittoria in trasferta, quando la posta in palio è ancora più difficile da conquistare. Missione compiuta: il 13 maggio del 2013, il teatro Sistina è stato espugnato dai laziali con più di mille presenze.
Lo spettacolo come da copione ha avuto il suo inizio con Tiberio Timperi, Elisabetta Ferracini e Ramona Badescu.
Come s’alza il sipario, parte l’inno “Vola Lazio vola”. Ovviamente l’ha cantato Tony Malco e dietro di lui: Wilson, Oddi, D’Amico, Petrelli, Sulfaro, Nanni e Facco lo hanno accompagnato in coro l’inno della loro squadra del cuore. Sempre Tony Malco, ha omaggiato i presenti con un’esclusiva; si chiama “La Lazio è là”; è il nuovo inno composto con Enrico Lenni.
L’incasso della serata è stato devoluto alle associazioni So.Spe e Piccoli passi.
«Ringrazio tutti. Con il cuore, avete aderito in tanti. E’ bello ritrovarsi ogni anno, i nostri colori aiutano la beneficenza, questo mi rende ancora più felice» . Così, in sintesi, l’intervento breve e coinciso di Suor Paola . Quando è salito Enrico Montesano, al Sistina lui è di casa. Del resto come poteva essere diversamente: Rugantino, Aldo Fabrizi, Garinei, quanti ricordi, vero Enrico?
Ha detto Montesano “Torno su questo palco dopo anni, e con grande emozione. Ho iniziato qui con Pietro Garinei”
Una piacevole emozione è stata regalata da Mino Caprio, regista teatrale e doppiatore, che con in mano il libro ” Pino Wilson vero capitano d’altri tempi di Vincenzo Di Michele, ha letto con intensa partecipazione alcuni brani significativi della biografia dello storico capitano biancoceleste.
Quando poi all’improvviso è comparsa sul maxischermo la scritta «Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia», tutto il pubblico del Sistina si è unito in un caloroso applauso nel vedere lo scorrere delle immagini di Long John accompagnate da un brano musicale composto dal regista Al Festa . Intale frangente sono stati invitati a salire sul palco: Pino Wilson, ideatore del gala insieme a Giancarlo Oddi, i quali, hanno ricordato con alcuni aneddoti il loro caro amico Giorgione.
Un grande show a tutto campo è stato quello di Pino Insegno, con le sue battute. Una su tutte : «Ma a voi del ‘74 verrà la prostata prima o poi?» .
Velia Donati, moglie del mitico Aldo – una voce laziale indimenticabile per il suo brano ” sò già due ore “- da anni costretto a letto da una malattia, ha cantato la canzone ” Ciumachella di Trastevere.
A seguire Jimmy Fontana si è esibito con le due celebri canzoni ” Il mondo ” e ” Che sarà ” .
Poi è salita sul palco la squadra di RadioSei, – celebre emittente radiofonica sempre presente nel mondo biancoceleste- con Stefano Pantano, Daniele Baldini, Gianluca La Penna, Roberto Bastanza, Alessandro Zappulla, Guido De Angelis e Valerio Cassetta.
Si sono poi susseguite le esibizioni di : Guido Lembo con il suo repertorio di canzoni napoletane, Roberto torretta del Bagaglino e il tenore Piero Mazzocchetti .

Infine sono saliti sul palco tutti gli interpreti della serata e sono stati premiati: Antonio Buccioni, Fabrizio Maffei, Mauro Mazza, Lucilla Nicolanti, Vincenzo Di Michele, Mino Caprio,Giancarlo Oddi e Massimo Maestrelli, il figlio del mister che conquistò il primo scudetto biancoceleste.

Lunedì 6 maggio alle ore 18 al Due Ponti Sporting Club in Via dei due ponti 48 a Roma, con la presenza dei calciatori “Quelli del 74 e non solo”, si svolgerà la presentazione del libro “Pino Wilson vero capitano d’altri tempi”di Vincenzo Di Michele

22 Aprile 2013

Ci sono storie che si raccontano e altre che inevitabilmente si dovranno raccontare. Sì, proprio così! Si dovranno raccontare; magari non subito perché il tempo è sempre stato un perfetto galantuomo e un po’ di pazienza non guasta mai; soprattutto quando si tratta di rivisitare e riscrivere alcuni avvenimenti che interessarono il mondo calcistico della serie A, della Nazionale e, perché no, di tutto l’insieme che ruotava intorno a tale sport.
Così ha scritto Vincenzo Di Michele , autore del libro: ” Pino Wilson vero capitano d’altri tempi”.
Quando Silvio Piola argomentò : “Certo che il segreto della Lazio è proprio in quell’omino con la fascia che gioca lì dietro!”, aveva inquadrato perfettamente il valore calcistico e la personalità di Giuseppe Wilson. Che si trattasse di un giocatore al di sopra della media lo dicono i numeri: quasi 400 presenze con la maglia della Lazio e sempre con la fascia al braccio. E poi, la militanza nella Nazionale italiana nonché presenziò ai mondiali del 1974 in Germania.
L’attenzione dei media di allora si dirigeva però prevalentemente su Chinaglia; non poteva essere diversamente. Tra gol, provocazioni e gesti impulsivi, “Long John” era senza dubbio il personaggio di richiamo per le testate giornalistiche, ma in quella squadra mattana e garibaldina come fu quella Lazio vincente del periodo Maestrelli, lì dietro c’era un altro grande giocatore che si chiamava Wilson. Era un giocatore molto richiesto sul mercato e corteggiato dagli altri club. Eppure, non cambiò mai maglia e non seguì neanche Chinaglia nella sua definitiva avventura nel Cosmos nonostante le allettanti proposte economiche d’oltreoceano. E ancora: fu uno dei pochi che conseguì una brillante laurea, quando era ancora nel pieno dell’attività calcistica e per di più, sposato e con due figli.
C’è qualcosa però che si contrappone alla situazione citata. In effetti, ciò che risulta piuttosto insolito, e nel contempo richiama l’attenzione verso una rivisitazione storica, è proprio la comprensione delle ragioni per cui un personaggio simbolo – peraltro cresciuto in una famiglia benestante, borghese e di ancorati e sani principi – come Pino Wilson, sia stato coinvolto nei primi anni 80, in quella vicenda del calcio scommesse. Quanto or menzionato è senza dubbio meritevole di miglior chiarezza considerando, in particolar modo, il comportamento a seguire del capitano della Lazio. Infatti, in una sorta di autopunizione, non solo stracciò il contratto che la Lazio gli aveva sottoscritto per il ruolo di dirigente, ma si allontanò per molti anni dall’ambiente calcistico. Sono questi i tratti salienti che Vincenzo Di Michele – vivendo gomito a gomito con lo storico Capitano della Lazio nella rievocazione del suo trascorso calcistico – ha voluto affrontare e narrare nella biografia ufficiale di Giuseppe Wilson.

PER NON DIMENTICARE: Incontro con Reduci e Autori che hanno scritto sulla guerra in Unione Sovietica e proiezione del documentario ” Natale in Russia”

4 Aprile 2013

“Per non dimenticare” è il titolo desiderato e voluto da Carmine Bellucci, l’organizzatore di questo evento storico commemorativo.
Si svolgerà infatti, sabato 20 aprile alle ore 16,30 presso ” la Sala Congressi di Bugnara” in provincia de L’Aquila, un incontro storico tra i reduci e i narrratori della guerra in Russia durante il secondo conflitto bellico.

Saranno presenti: i Reduci di guerra della 5° zona; l’avv. Raffaele di Pietro ( Presidente Ass. invalidi e mutilati di guerra), il Dott. Vincenzo Di Michele ( autore del libro ” Io prigioniero in Russia”); Anna Cavasini e Fabrizio Franceschelli ( autori del documentario ” Natale in Russia” ); Giuseppe Lo Stracco ( Sindaco di Bugnara); Giovanni Natale ( pres. Ass. nazionale Alpini sez. Abruzzo); Francesco Sciarretta ( Pres. Comm. Cultura sez. Abruzzo )

 

Serata di beneficenza ” Laziali D.O.C. ” il 13- 5- 2013 ore 20.30 al TEATRO SISTINA DI ROMA

22 Marzo 2013
ULTIMI POSTI DISPONIBILI 

E’ stato predisposto un punto vendita operante  il 13 – 5 – 2013  direttamente al Teatro  Sistina, il quale prima dello spettacolo a partire dalle ore 18,30, provvederà per la vendita degli ultimi posti disponibili

 

L’appuntamento per la serata di Gala
” Laziali Doc “
è in data Lunedì 13 maggio alle ore 20.30
al Teatro Sistina
(Via Sistina 129 – Roma)

 

Organizzatori:
Il capitano Pino Wilson e Giancarlo Oddi insieme a “Quelli del ’74 e non solo

Presenterà:
Tiberio Timperi ed Elisabetta Ferracini

Madrina della serata:
Anna Falchi

Con la presenza dei :
Campioni della Lazio del ’74 e dei giocatori di oggi

Interverranno i seguenti ospiti:
Pino Insegno, Enrico Montesano, Mauro Mazza, Guido Paglia, Fabrizio Maffei, Stefano Marroni, Luca Salerno, Clemente Mimum, Dario Argento,Tony Malco, Paolo Genovese, Andrea Perrozzi, Giorgio jr Chinaglia, Jimmy Fontana e I Cugini di Campagna.

Ospiti d’eccezione:
Guido Lembo da ” Anema e Core di Capri ” e Piero Mazzocchetti.
Presentazione della colonna sonoraLa leggenda di Long John” del Regista Al Festa

Mino Caprio, leggerà alcuni passi salienti tratti dal libro
“Pino Wilson Vero capitano d’altri tempi,
dell’autore Vincenzo Di Michele, la biografia recentemente pubblicata dello storico calciatore biancoceleste.

Finale con sorpresa

La serata sarà all’insegna della beneficenza e l’incasso sarà devoluto in favore della So. Spe di Suor Paola e dell’Associazione Piccoli Passi

L’evento sarà ripreso da Rai Sport e Roma Uno e radiocronaca in diretta di Radio Sei

Il costo del biglietto è di:

Galleria 1  – Euro 10
Galleria 2 –  Euro 15
Poltrona –  Euro 20
Poltronissima  1 – Euro 25
Poltronissima 2 – Euro 30

* E’ incluso un piccolo buffet

La prevendita sarà effettuata nei seguenti punti:

Via Farina n. 34/36 ( tel. 064826688).

Via Prenestina n. 200.

Via degli Scipioni n.84 ( tel.0639737890).

Via due Ponti 192 ( bar Gran Caffè tel. 0633250270).

Via Cassia n. 548 ( bar dei Tre Sardi)

Via Sestio Calvino n. 18 ( Tuscolana metro subAugusta)

Via Portuense n. 544

Piazza Monteleone da Spoleto ( bar Fiocchetti tel. 063338156).

Lazio Style Talenti ( Zio d’America)

Edicola Fermata Lepanto Metro A (tel. 06 3216800)

Associazione Gianni Elsner Via Evandro 18 Tel 06.354.50.482

Una conferenza sulla Campagna di Russia in onore del “70° anniversario della battaglia di Nikolajewka

29 Gennaio 2013

Una conferenza sulla Campagna di Russia in onore del 70° anniversario della battaglia di Nikolajewka

Recensione sul libro “Io prigioniero in Russia” di Lucilla Sergiacomo pubblicata sul quotidiano “La Città”

5 Dicembre 2012

Pubblicato su “La Città” – 22 dicembre 2012

Centomila e una gavette di ghiaccio

Il diario di un alpino di Intermesoli sopravvissuto alla campagna di Russia

Lucilla Sergiacomo

Nel novembre di quest’anno stampa e televisioni regionali hanno dato notizia di un fatto triste e commovente che ha per protagonista una piastrina di riconoscimento appartenente al soldato Amedeo Delle Lenti, nato a Piano d’Orta e morto settant’anni fa durante la Campagna di Russia. Aveva 21 anni e l’unico suo resto riconsegnato alla famiglia è la piastrina, ritrovata nel 2009 a Miciurisk, un posto a circa 400 chilometri da Mosca, da un alpino di Abbiategrasso, Antonio Respighi, durante un suo viaggio nei luoghi che furono teatro della sventurata guerra combattuta dal CSIR, il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, affiancato nel 1942 dall’ARMIR, l’Armata Italiana in Russia. 220.000 soldati italiani mandati da Mussolini a combattere sul fronte del Don a fianco dei tedeschi contro i bolscevichi. Secondo le cifre ufficiali i morti in battaglia furono 114.520 e dei dispersi solo 10.030 prigionieri italiani rimpatriarono dal 1946 al 1954 dai campi sovietici. Orientativamente furono 50.000 o 60.000 i decessi di militari italiani durante il trasferimento nei lager e durante la prigionia. Il pensiero va a Centomila gavette di ghiaccio, il capolavoro di Giulio Bedeschi che sta per compiere cinquant’anni nel 2013, anche se in realtà la prima stesura, andata perduta nell’alluvione del Polesine, risale al ‘45-‘46, poiché Bedeschi al suo rientro in Italia sentì l’urgenza immediata di tramandare la memoria dell’esperienza sua e degli alpini della divisione Julia che tra il ‘41 e il ‘42 raggiunsero le armate tedesche in prima linea, furono sopraffatte dai bolscevichi e affrontarono la ritirata nel micidiale inverno russo.

L’esigenza di Bedeschi fu condivisa da molti altri reduci del fronte orientale, oltre che da storici e saggisti attratti da quella che è stata ritenuta la più sanguinosa delle guerre combattute nel corso del secondo conflitto mondiale, sulla quale la temporanea apertura dell’Archivio Centrale del PCUS a ridosso del 1992 ha consentito agli studiosi l’accesso diretto alle fonti sovietiche. Un dato certo è che la narrativa sulla Campagna di Russia è una delle più consistenti produzioni di memorialistica di guerra e prigionia, che non va peraltro scemando negli anni sia grazie alle numerose riedizioni di alcune opere, molte pubblicate o rieditate dall’editore Mursia dopo il successo del romanzo di Bedeschi, sia grazie al valore che vecchi taccuini di guerra di padri e nonni assumono più spesso di quanto si pensa per figli e nipoti, che scoprono in quelle vecchie carte preziosissimi scrigni di ricordi.

A distanza di settanta anni da quella guerra infatti accade ancora oggi che vengano pubblicati manoscritti di reduci dai loro familiari. Uno degli ultimi, Io prigioniero in Russia, è il diario di Alfonso Di Michele, un abruzzese di Intermesoli, paesino alle pendici del Gran Sasso e frazione di Pietracamela in provincia di Teramo. Il figlio Vincenzo, giornalista e scrittore, ha curato l’edizione del racconto autobiografico del padre, pubblicato da La Stampa nel 2010. Una decina di anni fa una sorte simile capitò al Diario di guerra del capitano Gualtiero Fedrigoni, disperso nei pressi di Kulikino nel ’42. Il manoscritto fu stampato a Verona dopo una lunga trafila di vicende concluse con la trascrizione di una figlia. Lino Rizzon, reduce del 120° Reggimento di artiglieria, insieme a suo nipote Fabio Del Forno ha raccontato la dura esperienza della guerra e della prigionia vissuta in giovinezza in Fiocchi di neve, pubblicato nel 2008 da Ilmiolibro.it. Sempre nel 2008 presso l’editore Mursia sono state raccolte e pubblicate dal figlio Girolamo con il titolo Dimenticati all’Inferno. Un carabiniere nei lager sovietici. 1942-1946 le memorie del padre Dante Carnevale, che rievocano le sofferenze e le angherie subite dai prigionieri italiani nei lager sovietici.

La suggestione della guerra sul fronte russo, oltre che dalla continuità delle pubblicazioni sull’argomento, la si percepisce anche da altri segnali, ad esempio il recente best seller Le benevole di Jonathan Littell ha per protagonista un reduce tedesco gravemente provato dalla Campagna di Russia che ciononostante diventa colonnello delle SS impegnandosi per aumentare la produttività dei prigionieri di Auschwitz. Dopo il bombardamento di Berlino ripara all’estero, ormai profondamente trasformato dagli orrori di cui è stato vittima o artefice, fino ad approdare a una totale e ottusa indifferenza che è il risultato dell’abitudine alla ferocia, alla “banalità del male”, secondo l’incisiva definizione di Hannah Arendt. In Italia, nel 2010, il giovane e apprezzato cantautore italiano Simone Cristicchi ha tratto uno spettacolo di grande impatto emotivo dal poema in ottave romanesche Li Romani in Russia di Elia Marcelli, tornato invalido dal fronte russo e fondatore della lega Pacifista Italiana.

E’ solo qualche esempio tra tanti rintracciabili consultando anche on line le bibliografie sul fronte russo, fonti dalle quali si apprende che le opere pubblicate da ex combattenti sono molto più di un centinaio. La narrativa di guerra non si limita però al solo ambito delle scritture private che per volontà degli autori o di altri diventano pubbliche, cioè pubblicate. In realtà al termine della guerra ci fu tutto un particolare movimento della letteratura mondiale impegnato nella cronaca di quel conflitto e nella rievocazione delle sofferenze e delle atrocità patite. Oltre ai vari teatri di combattimento e alle sorti degli scontri militari, molti scritti furono dedicati all’esperienza della prigionia. I francesi raccontarono i lager tedeschi, gli inglesi i campi italiani e balcanici, agli italiani invece toccò il triste privilegio di ricordare, insieme alle tante guerre, gli anni passati da prigionieri in diversi angoli del mondo, dalla Germania alla Russia, dall’India al Sudafrica. La maggior parte di quei memoriali rimane al livello di testi documento, di testimonianza umana, altri per il loro valore espressivo sono citati almeno brevemente nelle nostre storie letterarie, alcuni sono invece entrati nel novero dei classici del Novecento italiano. Tutti comunque, quale che sia la classificazione che si voglia adottare, ci riportano pezzi di vita e di storia che fanno rabbrividire non solo per i drammi individuali e collettivi che testimoniano ma anche perché nella voce di non pochi narratori si colgono l’abitudine acquisita di fronte all’orrore e la rassegnazione alla violenza fatta o subita.

Ivo Emett, un ufficiale marchigiano della Divisione Julia, per esprimere il sentimento di abbandono che subentrava nei soldati dinanzi all’irrazionale prepotenza della guerra, intitolò i suoi racconti Niecevo, parola russa che significa “non importa, non fa niente” ed esorta a non reagire. Il “nicevoismo” che spesso emerge nella narrativa e nella memorialistica sul fronte russo si accompagna comunque negli autori italiani ad altre istanze, quali le contrapposizioni ideologiche mai sopite, la spinta, a volte enfatica, a celebrare le proprie azioni militari, la commemorazione dolente dei compagni che non ce l’hanno fatta, la consapevolezza di essere soli di fronte a mille pericoli, senza cibo, senza indumenti adatti a ripararsi dal freddo, con gli scarponi e le bende che si ghiacciavano causando il congelamento degli arti.

Oltre a Bedeschi, che dopo il grande successo di Centomila gavette di ghiaccio dedicò alla Campagna di Russia altre opere, i maggiori libri che uscirono da quell’esperienza rovinosa furono Il sergente della neve di Mario Rigoni Stern e i racconti, forse meno celebrati di quanto meriterebbero, Mai tardi. Diario di un alpino in Russia e La strada del davai di Nuto Revelli, anche lui alpino come gli altri due scrittori e sopravvissuto all’attacco del Generale Inverno durante la ritirata del ’43. Bedeschi, Rigoni e Revelli avevano creduto nel fascismo prima di partire, oltre al fronte russo avevano combattuto già altre guerre. Rigoni era partito volontario per la campagna militare contro l’Unione Sovietica convinto di partecipare a una santa crociata. Tutti e tre riuscirono a tornare e vollero raccontare, ma al rientro in patria ognuno prese una sua strada. Bedeschi entrò nel Partito Fascista Repubblicano dopo l’armistizio dell’8 settembre, fu comandante della XXV Brigata Nera di Forlì, ebbe scontri cruenti con i partigiani della Resistenza vicentina e si salvò da rappresaglie riparando in Sicilia; Rigoni se ne tornò nella sua Asiago e vi trascorse tutta la vita, impiegato del catasto fino al ’70 e poi scrittore a tempo pieno; Revelli dopo l’8 settembre scelse di entrare nella Resistenza alla guida delle formazioni di Giustizia e Libertà e fondò la prima organizzazione in memoria dei caduti in guerra.

Oltre a questi scrittori famosi, tanti altri ex combattenti si trasformarono in narratori del fronte russo, della guerra, della ritirata e della prigionia che avevano affrontato. Tra loro troviamo tutti i gradi militari, i più alti responsabili del comando, ufficiali, sottufficiali, soldati semplici, portantini, cappellani militari. Uomini di lettere e di cultura e autodidatti. Tra i tanti contenuti comuni dei loro resoconti emerge però anche la differenza dei punti di vista.

La guerra al fronte russo, pubblicato da Rizzoli nel ’54, il memoriale di uno dei più famosi generali italiani della seconda guerra mondiale, Giovanni Messe, offre lo sguardo d’insieme del comandante del CSIR e dell’ARMIR – Messe lo fu sino alla fine del ’42, quando chiese il rimpatrio per gravi dissapori con il comandante dell’armata, il generale Italo Gariboldi – sempre pronto a rimarcare il grande valore dei soldati italiani del CSIR e quanto quella prova sia stata ardua a causa delle difficilissime condizioni climatiche e ambientali e soprattutto della “disperante insufficienza di mezzi”, antiquati e inferiori a quelli degli alleati tedeschi, ai quali Messe imputa gravi errori strategici. Mentre il racconto di Messe rivela la capacità di mettersi dalla parte dei soldati, forse perché la sua lunga carriera militare partì dal grado di soldato semplice fino ad arrivare a quello di Maresciallo d’Italia, il memoriale La campagna di Russia, pubblicato presso Longanesi nel 1971 da Mario Carloni, comandante del 6° Reggimento bersaglieri, si presenta privo di emotività e conduce un distaccato e razionale resoconto militare dello sfondamento della linea italiana da parte dei bolscevichi, la cui forza era stata nettamente sottovalutata, e della successiva ritirata del reggimento, poi chiamato “colonna Carloni” in quanto vi si aggregarono altri gruppi combattenti italiani.

Un gran numero di libri è di ex combattenti ufficiali. Tra questi compare nel 1956, pubblicato da Einaudi, il romanzo I lunghi fucili, il titolo allude all’obsoleto fucile 1891 a canna lunga in dotazione delle truppe italiane, del tenente Cristoforo Moscioni Negri che in Russia combatté al fianco di Mario Rigoni. Ne Il sergente nella neve rimane di lui un breve ma memorabile ritratto: “il tenente Moscioni che comandava il caposaldo era come noi. Riposava lavorando come i muli, scavava camminamenti con noi durante il giorno e veniva con noi di notte a portare reticolati davanti alla trincea, a fare postazioni, a prendere pali tra le macerie delle case”. Avvincente nella sua drammaticità è il libro del sottotenente Eugenio Corti, I più non ritornano. Diario di ventotto giorni in una sacca del fronte russo, pubblicato da Garzanti nel 1947, dove si racconta la ritirata delle divisioni Pasubio e Torino rimaste prive di mezzi di trasporto, viveri, armi, esposte alle temperature siberiane che bloccavano corpo e mente irrigidendo i cadaveri dei soldati in strani atteggiamenti.

Accanto alla memorialistica degli alpini, che è la più gran parte, sono stati pubblicati anche diari di combattenti di altri corpi. L’autiere Lino Sassaro nella sua Cronaca e immagini della Campagna di Russia, un breve diario corredato da fotografie di vita quotidiana al fronte pubblicato da Menin nel 2008, racconta gli sforzi degli addetti agli Autoreparti pesanti che macinavano migliaia di chilometri su piste di fango e di neve, con il gelo invernale che inchiodava i veicoli; Giorgio Vitali nel suo Sciabole nella steppa, pubblicato da Mursia nel 1976, ricorda i combattimenti dei cavalieri italiani in Russia e il definitivo tramonto degli eroici duelli con la sciabola in una guerra che si sarebbe conclusa con la bomba atomica.

E’ una produzione in cui abbondano titoli realistici, rispecchianti le difficoltà materiali e la continua lotta con la morte affrontate dagli scrittori soldati: Il labirinto di ghiaccio di Gino Papuli, Sangue sul Don di Agostino Bonadeo, La ritirata di Russia. La marcia allucinante degli alpini in un inferno di ghiaccio e di fuoco di Egisto Corradi, 40 gradi sotto zero a Nikolajewka di Luigi Collo, Calvario bianco di Don Carlo Caneva, il cappellano militare sopravvissuto alla prigionia che volle la realizzazione del Tempio di Cargnacco, punto d’incontro per reduci e familiari della Campagna di Russia. Compaiono anche titoli eroici, Il Corpo d’Armata Alpino non s’arrende!, di Julius Bogatsvo e Giulio Ricchezza, o suggestivi, come Storie di alpini e di muli dell’ufficiale veterinario Giuseppe Bruno, al quale Mario Rigoni assegnò il merito di aver fatto entrare i muli nel novero dei personaggi nella narrativa italiana. Oltre a quello di Emett, c’è anche qualche titolo in russo. Uno, Prikass Stalina Italianski Karoshij (Ordine di Stalin, Gli italiani sono buoni), libretto di ricordi del capitano Giovanni Ghibelli, è da segnalare perché si incentra sullo stereotipo degli “italiani, brava gente” tramandato in molti altri memoriali insieme alla convinzione che le cause della disfatta italiana andassero cercate nell’insufficienza degli armamenti, nella gestione sbagliata della guerra decisa dai comandi tedeschi, nell’asprezza del clima e del territorio.

Nella quasi totalità di questi diari passa comunque in secondo piano il fatto che gli italiani in Russia erano invasori, non vittime, e che pertanto le loro responsabilità in quella tragedia andavano rimesse in gioco. Mussolini aveva voluto fortemente la partecipazione italiana alla lotta contro il comunismo bolscevico e fece pressione su Hitler deluso dagli esiti dell’intervento militare fascista in Grecia e contrario all’impiego di altre truppe italiane in Russia, deboli e mal armate. A fargli cambiare idea, secondo gli storici, fu la prova data dal CSIR nella “Battaglia di Natale”, che mostrò la capacità italiana di tener testa all’Armata Rossa e di passare al contrattacco. Fu così che nell’estate del 1942 i due Corpi d’armata dell’ARMIR furono trasferiti in URSS. Si trattava prevalentemente di alpini reduci dalla guerra greco-albanese, che secondo il piano dell’Asse erano destinate a combattere sul Caucaso, per arrivare di lì a impadronirsi del Canale di Suez e del Medio Oriente, centri nevralgici per i rifornimenti petroliferi degli inglesi. In realtà l’obbiettivo presto si rivelò troppo ambizioso e le divisioni italiane ricevettero l’ordine di raggiungere con una marcia di quattrocento chilometri il resto dell’esercito schierato con i tedeschi sulle rive del Don.

Di quella marcia che lo portò dalla piccola città ucraina di Izium fino al fronte offre una testimonianza diretta e precisa in Io, prigioniero in Russia Alfonso Di Michele, rivelando che all’arrivo in Russia nell’agosto del ’42 ai militari italiani era stato fatto intendere che la resa dei russi era ormai scontata. Era una grande menzogna, presto smentita dagli orrori della guerra che sfilarono davanti agli occhi dei soldati nel lungo viaggio di avvicinamento alla loro destinazione. Alfonso scrisse le sue memorie all’età di settant’anni, pochi mesi prima di morire. Pur desiderando da tempo scrivere la sua autobiografia, non se ne era mai sentito capace perché provava ancora troppo risentimento per le sofferenze vissute in guerra e temeva che toni troppo accesi dal rancore avrebbero preso il sopravvento sulla razionalità necessaria a ogni racconto. La ricostruzione degli eventi, che Di Michele fece con l’aiuto del compagno d’armi Dante Muzi, risulta in effetti filtrata dalla distanza degli anni e dalla capacità di rileggere criticamente quell’esperienza della quale portò nel fisico e nell’anima i segni per tutta la vita.

Presto abbandonati i toni descrittivi del racconto di viaggio, il diario rende infatti la piena consapevolezza dell’inutilità e dell’illogicità della guerra. “il soldato obbedisce, ma senza sapere dove si va …e se si ritornerà”, scrive il narratore rievocando la notte estenuante durante la quale i camion portano lui e i suoi compagni del Battaglione L’Aquila, storditi dal freddo, in prima linea per contenere l’attacco sferrato sull’ansa del Don dall’Armata Rossa. Alfonso ammette di non sapere perché doveva combattere contro i ragazzi che come lui stavano schierati dall’altra parte del fiume di ghiaccio, sapeva solo che appartenevano alla categoria del “nemico bolscevico” e poteva supporre che nelle loro teste ci fossero pensieri uguali ai suoi. “Noi però, nel nostro insieme, eravamo i fascisti nonché gli invasori dell’Unione Sovietica”, scrive il narratore ormai vecchio, sentendo il bisogno di chiedere perdono a quei giovani allora ventenni, sradicati come lui dalle proprie famiglie e visti irrigidire come fagotti sulla neve in mezzo a chiazze rosse accanto ai morti italiani. Le parole che indirizza ai suoi nemici di allora sono lapidarie e di centrale importanza, perché restituiscono il succo della ‘piccola storia’ vissuta dal reduce abruzzese e riescono contemporaneamente a denunciare le responsabilità della Grande Storia: “Noi eravamo presenti fisicamente, ma non disponevamo della padronanza delle nostre menti”.

Arrivato al momento del bilancio di quegli anni, Alfonso Di Michele sa di non essere stato un eroe di quella guerra, ma solo “un’inevitabile comparsa” costretta dalla paura e dall’egoismo a compiere anche atti di grande vigliaccheria, soffocando ogni sentimento di carità per i compagni feriti che supplicavano di non essere abbandonati sul campo di battaglia e che presto, insieme ai cadaveri, sarebbero stati schiacciati dai poderosi carri armati T34 dei russi.

Dopo l’apocalissi della battaglia e della cattura, il diario prosegue con l’odissea del trasferimento nei campi di concentramento, raggiunti affrontando la marcia del davai, “avanti”, “cammina”, la parola russa urlata dalle guardie, e poi in treno, trasportati in carri bestiame dove vivi e morti viaggiavano insieme fino all’arrivo nei campi di lavoro. Il primo è Tambov in Siberia, dove ogni mattina mucchi di cadaveri venivano trasportati in una fossa comune e dove Alfonso si ammala gravemente di tifo e di polmonite. Un vero Inferno dantesco dove, come spesso raccontava il padre di chi scrive, rimasto prigioniero degli inglesi per 5 anni a Zunderwoter in Sudafrica, serviva un’enorme forza interiore, un’instancabile dedizione alla speranza per resistere alla febbre del filo spinato e non impazzire. Il secondo campo è Pakta Aral, nel Kazakistan, ai confini della Cina, dove Alfonso Di Michele era addetto a coltivare cotone nei campi, costretto a subire quotidianamente gli interrogatori dei commissari del popolo russi che miravano al lavaggio del cervello degli italiani, ritenuti tutti sobillatori e reazionari, e li sottoponevano a torture psicologiche, provocazioni e perquisizioni che generavano tensione e diffidenza tra i prigionieri. Era una strategia per convincerli a passare al nemico e a tradire il proprio paese, spiega il narratore senza giudicare. Quando arriva la notizia della fine della guerra e sente l’annuncio del rimpatrio Alfonso si trova nel lazzaretto del campo, ha la malaria, pesa 35 chili. E’ il novembre del 1945. Caricato su un treno con altri malati riesce a tornare a Intermesoli, dopo 3 anni e mezzo.

Se si vuole approfondire quello sciagurato periodo storico si possono certo consultare tanti altri memoriali e saggi storici di meritata fama. Eppure vale la pena leggere Io prigioniero in Russia, che più che un diario o un documento è una traduzione della realtà avvenuta attraverso il filtro della distanza e spinge a riflettere sulla differenza tra ciò che è doveroso e ciò che è morale, sul confine provvisorio tra umano e disumano. Disumano che nel racconto essenziale e profondo del reduce abruzzese si rivela come caratteristica dell’uomo che si adegua alle circostanze, ormai privo di ogni limite etico e quindi pari a una bestia.

Campo Imperatore, Settembre 1943: Liberazione o cattura di Mussolini?

14 Novembre 2012

12 settembre 1943 

“Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso”,
libro di Vincenzo Di Michele

 Liberazione o cattura di Mussolini?

 

di: Giovanni Luigi Manco

Mussolini finto Prigioniero al Gran Sasso, pubblicato dalle edizioni Curiosando, è un bel libro, scritto da Vincenzo Di Michele e presentato a Roma, la scorsa settimana, dalla dressa Giovanna Canzano. Grazie a dichiarazioni inedite di diversi testimoni oculari, a Campo Imperatore nel settembre del 1943, Di Michele fa luce su aspetti poco chiari della vicenda, come per esempio la presenza di tre soggetti, invitati dal tenente Alberto Faiola, Comandante del nucleo Carabinieri, addetto alla sorveglianza di Mussolini.

Uno di questi, Alfonso Nisi, armentiere di Bracciano, fu successivamente denunciato dal tenente Faiola, per le sue dichiarazioni sulla completa possibilità del Duce di fare “da prigioniero” quanto gli pareva e piaceva: vedere gente, ricevere e inoltrare lettere clandestine. La sorveglianza era del tutto inefficace.

Un posto del tutto insicuro eppure mantenuto benché, a soli 30 minuti di marcia, il rifugio Duca Degli Abruzzi, utilizzato dall’Aereonautica Militare.

Gli addetti alla sorveglianza erano circa 80 tra Poliziotti e Carabinieri. Comandavano le operazioni, l’Ispettore di Polizia Giuseppe Gueli ed il Tenente dei Carabinieri Alberto Faiola. Il maresciallo dei Carabinieri Osvaldo Antichi, nativo di Modena, presiedeva all’incarico della stretta sorveglianza: nessuno oppose resistenza all’esercito tedesco atterrato a Campo Imperatore con gli alianti.

Eppure, il tenente Alberto Faiola, Comandante dei Carabinieri al Gran Sasso, fu encomiato per la sua piena aderenza alle disposizioni impartite. Non si deve però sottacere la questione inerente la turbolenza di quei giorni. Infatti, il periodo tra la seduta del Gran Consiglio e la liberazione di Mussolini a Campo Imperatore, è stato alquanto movimentato; la sfiducia al duce, il suo arresto, il trasferimento all’ isola di Ponza e poi all’ Isola della Maddalena e al Gran Sasso, la proclamazione dell’ armistizio ed infine il colpo di mano dei tedeschi che costringe Mussolini a creare la Repubblica Sociale Italiana. Sulla posizione del Governo Badoglio e del Re riguardo le loro ambiguità è un dato storico pressoché consolidato.

Se in quel, liberate il Duce, fortemente ribadito dal Fuhrer, la propaganda tedesca aveva innalzato l’operazione Eiche, quale estremo tentativo nel cercare di risollevare le sorti di un conflitto bellico peraltro già segnato, nei fatti, occorre necessariamente ribadire a gran voce la totale assenza di reazione dell’esercito italiano. All’incursione partecipa, suo malgrado, un Generale del Corpo di polizia, Fernando Soleti, cond coattivamente a Campo Imperatore. Un espediente per condizionare il comportamento degli agenti di guardia o forse, più p0robabilmente, per gettare fumo negli occhi.

Le considerazioni sono inevitabili: Mussolini è sul Gran Sasso in prigionia o per essere consegnato ai tedeschi in cambio della sicurezza ai Savoia nel loro trasferimento a Pescara e, via mare, a Brindisi?

Per Mussolini non sarebbe stato né il primo né l’ultimo inganno. Tutta l’alleanza italo-tedesca ne è costellata.

Alleanza stipulata solo in seguito ad una studiata minaccia: prima le sanzioni commerciali internazionali, deliberate dalla Società delle Nazioni in seguito alla campagna etiopica e adottate perfino dagli Stati Uniti, che dell’organismo internazionale non fanno parte, quindi la dichiarazione di Hitler sulla disponibilità della Germania a rientrare nella Società delle Nazioni, eventualità, questa, che avrebbe significato per l’Italia il più assoluto isolamento internazionale, la sua completa rovina economica, per cui perfino Ciano, da sempre antitedesco, consiglia Mussolini all’alleanza.

Hitler piega l’Italia con una minaccia e tradisce l’Italia dall’inizio alla fine del sodalizio.

La seconda guerra mondiale inizia a nostra insaputa e continua, in tutte le operazioni belliche, a nostra insaputa. Nessun peso all’assoluta contrarietà di Mussolini all’allargamento del conflitto, alla guerra contro Unione Sovietica. Probabilmente proprio per questo in Germania prima si decideva, si agiva e solo in seguito si informava il governo italiano.

Quando il Gran Consiglio delibera la destituzione di Mussolini lo fa nel suo pieno diritto, quale supremo organo del partito fascista. Vittorio Emanuele III più che imprigionare, confina, si potrebbe dire, Mussolini, prima a Gaeta, poi a Ponza, alla Maddalena, a Bracciano, infine al Gran Sasso; egli stesso, del resto, si “confina” a Brindisi.
Né per il Re né per il capo del Governo erano possibili altre alternative.

Per i tedeschi è un gioco da ragazzi, il 12 settembre 1943, quattro giorni dopo il passaggio ufficiale dell’Italia dalle forze dell’Asse a quelle Alleate, atterrare sul Gran Sasso e “catturare” Mussolini.

Catturare, non liberare Mussolini. De Felice, nella sua documentata ed insuperata biografia del fascismo, documenta e illustra questo aspetto molto chiaramente.

Hitler ha bisogno di Mussolini per legittimare e proteggere le truppe tedesche nel nord Italia, per legittimare l’occupazione, o per essere più precisi, la rapina dell’Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia.

La Repubblica Sociale… Un’effimera repubblica che mai Mussolini avrebbe riconosciuto, mai avrebbe accettato di presiedere, MAI, se non per proteggerci da un inevitabile sentimento di vendetta.

Mussolini, assecondando la volontà tedesca, sceglie consapevolmente la strada del martirio e la continua fino all’orrore di piazzale Loreto.

VINCENZO DI MICHELE ospite nel programma “Raccontami il tuo libro”

13 Novembre 2012

Il 19 ottobre 2012 Vincenzo Di Michele è stato a Fiano Romano ospite di Giovanna Canzano nel programma “Raccontami il tuo libro”

L’argomento del dibattito verteva sulla prigionia di Mussolini al Gran Sasso nel 1943 e sul revisionismo storico grazie appunto alle nuove testimonianze e argomentazioni contenute nel libro ” Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso”di Vincenzo Di Michele.

Sono Intervenuti: Giorgio Vitali, Giorgio Prinzi, Guglielmo Quagliarotti ,Gian Paolo Pucciarelli, Giuseppe Turrisi, Giovanni Luigi Manco (in collegamento via skype da Trieste).
http://www.raccontamiiltuolibro.blogspot.it/2012/10/vincenzo-di-michele.html

Il libro Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso in allegato nel mese di Ottobre alla Gazzetta di Mantova , Gazzetta di Reggio, Gazzetta di Modena , La Nuova Ferrara e la Provincia Pavese

10 Ottobre 2012

Nel mese di Ottobre, sarà possibile acquistare il libro “Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso” in allegato con i quotidiani: La Gazzetta di Mantova, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena , La Nuova Ferrara e La Provincia Pavese .

Nella sua inchiesta finalizzata al revisionismo storico di quegli avvenimenti l’autore del libro Vincenzo Di Michele, ha rivisitato alcuni eventi di fondamentale importanza che troppo a lungo sono stati oscurati. Importanti quesiti discussi in modo meticoloso con preziose testimonianze inedite che, riportano alla luce una verità sconvolgente: la prigionia di Mussolini non è mai stata tale.

In questa rivisitazione: Il racconto di un pastorello che in prima persona assistette interamente alla planata degli alianti Tedeschi sul pianoro di Campo Imperatore in quel 12 settembre 1943. E poi : il racconto del pastore abruzzese Alfonso Nisi che proprio quei giorni era ospite nello stesso albergo ove era detenuto Benito Mussolini

Alla stregua delle recenti testimonianze – commenta Di Michele – la liberazione di Mussolini dallo stato di detenzione al Gran Sasso fu con ogni probabilità frutto di un accordo di un accordo tacito tra il Governo Badoglio e le forze tedesche.

Personale