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La storia sconosciuta della nave Laconia: una tragedia tutta Italiana raccontata da Vincenzo Di Michele

18 Aprile 2025

La storia sconosciuta della nave Laconia: una tragedia tutta Italiana raccontata da Vincenzo Di Michele

Per non dimenticare quelle vittime italiane inghiottite  dalle acque profonde  ormai consegnate alla storia. Commenta Vincenzo Di Michele autore del libro : Le scomode verità nascoste nella II guerra mondiale: “ in questa tragedia non affondarono soltanto corpi: sprofondò anche una parte della memoria italiana. Per anni, il loro destino rimase sepolto non solo sotto le onde, ma anche sotto il peso di una storia che preferiva dimenticare e l’indifferenza a volte ci fa dimenticare il dolore altrui”.

Il 12 settembre del 1942 i sommergibili tedeschi silurarono la nave inglese, con a bordo 1800 prigionieri italiani catturati nella battaglia di El Alamein.
Gli italiani erano ammassati nelle stive e lì rimasero intrappolati. Quando la nave cominciò ad affondare, i soldati inglesi chiusero le stive dove si trovavano i prigionieri, respingendo con le armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio. Le testimonianze di quei momenti sono state agghiaccianti: qualcuno dei prigionieri pare avesse tentato addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le
pareti dello scafo. Con la forza della disperazione, si erano scagliati
anche contro i cancelli sbarrati davanti alle guardie, che non esitavano a respingerli a colpi di baionetta o a sparare a bruciapelo. L’orrore era poi proseguito
sul ponte della nave, dove avevano sparato sugli italiani che cercavano posto nelle scialuppe e ad alcuni erano anche stati recisi i polsi affinché non potessero
più arrampicarsi. Come se non bastasse, il sangue dei feriti aveva
richiamato sul posto gli squali della zona, che fecero scempio dei pochi vivi e dei cadaveri. Questa storia, comunque la si interpreti, non solo è una pagina
ben poco onorevole, ma è stata anche uno dei tanti misfatti di una guerra che purtroppo degenerò in atteggiamenti insensati oltre misura. Anche per questa
tragedia ci fu una duplice versione. Se si vede nella visuale degli Alleati lo definirono “l’incidente del Laconia”, mentre per le forze dell’Asse fu “la tragedia del Laconia.

L’affondamento della nave tedesca Wilhelm Gustloff: una pagina amara della seconda guerra mondiale scritta da Vincenzo Di Michele

18 Aprile 2025

L’affondamento della nave tedesca Wilhelm Gustloff

Una tragedia dimenticata della seconda guerra mondiale che Vincenzo Di Michele ha avuto il buon senso di riportare “a galla”, per non dimenticare, per dare giustizia a tutte quelle persone che sono state vittime di un conflitto sanguinario e poi come se niente fosse furono  inghiottite non solo dalle acque profonde, ma anche dall’indifferenza che troppe volte cala come una nebbia fitta sul dolore altrui.

Di seguito quanto scritto dallo storico Vincenzo Di Michele nel libro “Le scomode verità nascoste della II Guerra Mondiale”.

L’affondamento della nave tedesca “Wilhelm Gustloff” è stata la più grande tragedia navale di tutti i tempi, ma fino a oggi non è molto conosciuta, perché fu oggetto di interpretazioni forzate. I circa 9000 morti furono spesso stilizzati come martiri di una causa perduta, ma in verità anche loro furono vittime innocenti della guerra.

Fu affondata il 30 gennaio 1945 da un sommergi­bile sovietico nel Mare Baltico, portando con sé in fondo al mare migliaia di vittime. A vedere bene le cose, però, già il nome della nave era comprometten­te. Gustloff, infatti, era stato il capo dell’organizza­zione nazista in Svizzera, che fu assassinato nel 1936 da un ebreo. Questa nave, la più grande e moderna della marina civile tedesca, doveva portare un nome alquanto più simbolico: Adolf Hitler. Ma la super­stizione del Führer fece cambiare idea e fu scelto il nome di Wilhelm Gustloff. Con l’avvento della guer­ra la nave fu confiscata dalla marina militare.

Alla fine del 1944, a causa dell’avanzamento dei russi verso le coste del Mare Baltico, migliaia e mi­gliaia di civili tedeschi cercarono salvezza nei porti di Danzica e Gotenhafen, dove le navi tedesche li avrebbero tratti in salvo. Anche la Gustloff fu desti­nata al trasporto dei profughi. Tra i passeggeri c’era un po’ di tutto: allievi ufficiali, soldati feriti, donne marinaie ausiliari, donne, civili, vecchi e bambini. Inizialmente si era voluto limitare il numero mas­simo di passeggeri a tremila come capienza massi­ma, ma poi alla fine imbarcarono più di diecimila individui.  

Fu affondata da un sommergibile sovietico e tantis­sime persone rimasero intrappolate dentro la nave e affondarono con essa; altre perirono dopo alcuni mi­nuti nell’acqua gelida. Le vittime furono oltre 9000, tra cui ben 3000 bambini. Solo un migliaio e rotti fu­rono i sopravvissuti. La versione sovietica parlò della Gustloff come di una nave piena di soldati e arma­menti, e quindi di un legittimo bersaglio di guerra.

Campo Imperatore 1943. Quel falso mito sulla liberazione del Duce: Gli accordi segreti dietro la leggendaria impresa di Skorzeny e dei paracadutisti tedeschi.

10 Aprile 2025
Il Nuovo libro di Vincenzo Di Michele
 
E se la liberazione di Mussolini sul Gran Sasso fosse stata tutta una messa in scena?
Il 12 settembre 1943, il Duce viene liberato dai paracadutisti tedeschi, celebrati dalla storia come eroi. Ma la realtà è ben diversa: accordi segreti tra il governo italiano di Badoglio e le forze naziste, ricatti, sotterfugi, e una “liberazione” preconcordata senza alcuna resistenza. Attraverso testimonianze inedite e documenti emersi solo di recente, Vincenzo Di Michele smonta il mito dell’Operazione Quercia, raccontando una verità che per decenni è stata nascosta agli italiani. Una verità che riscrive la storia e fa luce sulle responsabilità italiane nella creazione della Repubblica Sociale e nell’inasprimento della guerra civile.
 
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Campo Imperatore 1943. Quel falso mito sulla liberazione del Duce

Video: il falso mito dello stadio di Wembley

3 Aprile 2025

Raccontiamo qualcosa di diverso ovverosia il falso mito dello stadio di Wembley dove a tal conto l’ ubicazione, la posizione, il contesto nonché lo sfondo architettonico mi hanno lasciato molto perplesso mentre al contrario in merito a ciò sia lo Stadio Olimpico sia lo Stadio Flaminio sono veramente meritevoli.

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Video: che colpa aveva Claretta Petacci se non quella di amare un uomo?

3 Aprile 2025

Rivediamo la storia, Aprile 1945 Milano Piazzale Loreto, che colpa aveva Claretta Petacci se non quella di amare un uomo?

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Video: una Venezia inaspettata

3 Aprile 2025

Vincenzo Di Michele presenta strade strette e panni stesi, elementi inizialmente associati a Napoli. Tuttavia, l’autore invita a osservare i nomi delle vie e lo stile delle trattorie, suggerendo un’altra possibile interpretazione. Si rivela che queste scene fanno parte della “vera Venezia”, quella dei suoi abitanti, in contrasto con l’immagine più turistica di piazza San Marco e delle gondole. Il video svela quindi un aspetto inaspettato e autentico della città lagunare.

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Video: una Parigi dolce dolce

3 Aprile 2025

Vincenzo Di Michele mostra una Parigi dedicata alla grande varietà di dolci disponibili, diverse vetrine piene di cioccolatini, torte e altre specialità. Ci sono tante altre attrazioni a Parigi da vedere, come la Torre Eiffel

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Le famiglie Italiane ancora piangono i Loro cari dispersi in Russia

29 Marzo 2025

La ritirata, i corpi mai ritrovati, le lettere mai arrivate, i lager sovietici e le fosse comuni: Migliaia e migliaia di soldati dissolti nel nulla

Tra le vicende più oscure della Seconda Guerra Mondiale si nasconde una pagina troppo poco raccontata, un dramma collettivo coperto da silenzi e polvere ideologica: quello degli italiani sul fronte russo. Migliaia di uomini mandati al macello e poi dimenticati, perché la loro sorte si incrociava con il marchio indelebile di una guerra combattuta “dalla parte sbagliata”.

Il gelo della steppa fu solo il primo tradimento. La ritirata, i corpi mai ritrovati, le lettere mai arrivate, i volti mai tornati. Una tragedia che non ha avuto né medaglie né memoria ufficiale, solo oblio.

Eppure, come spesso accade, qualcuno ha deciso di raccontare ciò che per decenni è rimasto sottotraccia. La storia non è fatta solo dai vincitori, ma anche da chi ha il coraggio di riscriverla alla luce dei fatti. È da questo intento che nasce un’opera che affonda le mani in ciò che tanti preferiscono non ricordare: “IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA” scritto dallo storico Vincenzo Di Michele è il libro che ci ha aiutato ad aprire gli occhi su questa vicenda, una fonte preziosa per comprendere pienamente gli orrori della seconda guerra mondiale.

Un fronte gelido e dimenticato: la partenza verso l’ignoto

Partirono con l’illusione di andare incontro a una missione gloriosa. Si raccontava che sarebbero bastati pochi mesi per riportare a casa una vittoria. Invece si ritrovarono in un inferno, un fronte tanto lontano quanto spietato, dove il gelo non era solo climatico, ma anche umano e politico.

Vennero arruolati migliaia di italiani, spediti al fronte orientale a combattere una guerra che non comprendevano fino in fondo. Alpini, artiglieri, carristi, fanti e volontari: un mosaico di storie, paure e speranze presto frantumate sotto il peso della realtà. Il fiume Don diventò una linea sottile tra la vita e la morte, mentre la neve inghiottiva i sogni e il tempo si cristallizzava nel freddo.

E l’Italia, troppo impegnata a riscrivere il proprio destino, lasciò che questi uomini cadessero nell’oblio prima ancora che nella neve.

Non era solo il freddo a uccidere

I soldati italiani in Russia affrontarono temperature che sfioravano i -40 gradi, con scarponi inadeguati per quei territori, uniformi leggere e razioni di cibo che non bastavano a sfamare neanche un cane randagio. Dormivano nella neve, marciavano tra i cadaveri, combattevano con armi inadatte contro un nemico implacabile e un freddo che non sembrava conoscere limiti.

Chi tornò parlò di campi disseminati di uomini morti congelati. Le voci dei sopravvissuti raccontano storie disconosciute dalla narrazione ufficiale: né eroi né martiri, solo uomini esausti.

La ritirata si lasciò dietro una scia di morte. I documenti li chiamano “dispersi”, ma molti furono semplicemente ignorati. Tante madri e mogli non ebbero una tomba su cui piangere i propri cari, per anni attesero speransose un possibile ritorno a casa, ma nessuno si presentò mai a portare buone notizie o la conferma di una perdita, solo silenzio.

Ricordare è un atto di giustizia

C’è una verità che non si trova nei manuali scolastici, ma che brucia nelle testimonianze raccolte tra i superstiti. Parole smarrite tra i ghiacci, che oggi tornano a farsi sentire grazie a chi ha scelto di riportarle alla luce. Le storie degli italiani in Russia non sono favole di guerra, ma fendenti di realtà.

C’erano ragazzi che non avevano ancora vent’anni, mandati al macello e abbandonati a se stessi. C’erano interi reparti dispersi nel nulla, come se la neve li avesse inghiottiti. E poi c’erano gli altri, quelli tornati ma mai veramente accolti, perché l’etichetta politica di “fascisti” aveva tolto loro il diritto alla sofferenza.

La guerra li aveva distrutti nel corpo e il dopoguerra finiti nello spirito. Non una medaglia, non un grazie, per i dispersi nemmeno una tomba.

Ricordarli oggi è un atto di giustizia, non solo storica ma umana.

Restituire la dignità a chi è stato dimenticato

Quando la Storia ufficiale tace, c’è bisogno di chi ha il coraggio di svelare verità troppo a lungo dimenticate. E questo è ciò che fa il libro “IO, PRIGIONIERO IN RUSSIA”, un’opera che non si limita a raccontare, ma scava, indaga, svela. Un lavoro che restituisce dignità a chi è stato dimenticato e porta alla luce vicende che, per troppo tempo, sono state nascoste sotto il tappeto della convenienza.

Si tratta di un’opera che mette il lettore davanti a uno specchio: quello della coscienza collettiva. Leggerlo è come aprire un cassetto chiuso da anni e trovare dentro verità che ancora fanno male, ma che hanno bisogno di essere guardate in faccia.

Un libro che si fa testimone. Un autore Vincenzo Di Michele che, da buon storico, si fa ponte tra ciò che è stato e ciò che ancora oggi ci riguarda.

 

Lo scandalo degli esperimenti medici nella Seconda Guerra Mondiale, una verità sconvolgente raccontata da Vincenzo Di Michele

20 Marzo 2025

Non era il dott.Mengele,il solo che si macchiò di orrori senza pietà : c’erano anche gli altri eserciti in guerra

Durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre il mondo bruciava sotto i bombardamenti e milioni di vite venivano spezzate, dietro cancelli sbarrati e mura impenetrabili si consumava un’altra tragedia, fatta di aghi, bisturi e camere fredde, dove l’uomo diventava oggetto, carne da sezionare, organismo su cui misurare fino a che punto un essere umano potesse sopportare dolore e terrore. La scienza, in quel contesto, indossò il camice dell’orrore e si piegò agli istinti più bassi, travestiti da ricerca.

Gli scienziati di diversi schieramenti – non solo nazisti – si cimentarono in esperimenti che definire disumani è riduttivo. Furono anni in cui il confine tra ricerca e sadismo si fece talmente sottile da sparire quasi del tutto. Nessuno era più una persona: corpi, numeri, statistiche. Il male aveva trovato il modo di rendersi metodico.

Una scienza impazzita dietro il filo spinato

Non ci furono solo i laboratori di Auschwitz guidati da Josef Mengele, benché la sua figura resti emblematica. In quella stagione di follia, la scienza stessa sembrava aver smarrito la rotta, accettando di trasformarsi in uno strumento di tortura sistematica. I medici, quelli che avrebbero dovuto curare, finirono col tradire la loro vocazione, affondando le mani nella carne viva dei prigionieri, nel disperato tentativo di estrarre verità che nessuno aveva chiesto.

Josef Mengele: il volto della crudeltà in camice bianco

Il suo nome è diventato sinonimo di morte e crudeltà. Il dottor Mengele, ad Auschwitz, si aggirava tra i prigionieri come un predatore tra le prede. Era ossessionato dai gemelli, dai nani, dai deformi. Cercava soggetti che, a suo dire, potessero offrirgli uno spunto per migliorare la razza ariana. Li torturava con esperimenti che rasentavano l’assurdo: iniezioni negli occhi per cambiare il colore dell’iride, trasfusioni reciproche fino all’esaurimento delle forze vitali, mutilazioni eseguite a sangue freddo, senza anestesia. Alcuni gemelli venivano cuciti l’uno all’altro per creare “siamesi artificiali”. Altri morivano lentamente, infettati di proposito con malattie devastanti.

Mengele non cercava risposte scientifiche. Cercava, piuttosto, una soddisfazione sadica, travestita da studio.

L’inferno giapponese: Unità 731

Se la crudeltà nazista aveva un volto, quella giapponese aveva un numero: 731. In Manciuria, nell’Unità 731, gli scienziati nipponici si dedicarono con spietata dedizione alla ricerca sulle armi biologiche. Ma quella era solo la facciata. Dietro c’era il terrore puro: vivisezioni senza anestesia, amputazioni di arti sani, donne incinte squarciate vive per osservare lo sviluppo fetale, esperimenti di congelamento condotti fino alla morte. I prigionieri, chiamati “maruta” (pezzi di legno), venivano deliberatamente infettati con peste bubbonica e colera. Legati a pali in aperta campagna, erano bersagli per testare bombe batteriologiche.

Un orrore che non conobbe giustizia. Molti degli scienziati dell’Unità 731 scambiarono la loro immunità con il trasferimento dei loro studi agli Stati Uniti. Il patto col diavolo si firmava anche con la penna americana.

Il gelo negli occhi: esperimenti di congelamento nazisti

I cieli del fronte orientale erano freddi, letali. La Luftwaffe aveva bisogno di sapere quanto potessero resistere i propri piloti in caso di ammaraggio forzato nel Mare del Nord. La risposta la cercarono nei corpi nudi dei prigionieri di Dachau. Venivano immersi in vasche d’acqua gelida, monitorati mentre il calore della vita fuggiva lentamente dalle loro vene. Alcuni morivano dopo un’ora. Altri, quelli più sfortunati, sopravvivevano abbastanza da diventare cavie per esperimenti di rianimazione: bagni bollenti, impacchi, o il famigerato “riscaldamento umano”.

In questo ultimo caso, donne zingare venivano costrette a sdraiarsi nude accanto ai corpi rigidi dei congelati, cercando di riportarli alla vita col solo calore del loro corpo. Non si trattava solo di scienza, ma di una perversa messinscena di potere e sottomissione. E c’è di peggio: si testava se l’odore acre del sudore potesse stimolare il risveglio delle vittime.

La corsa alle armi invisibili: l’isola della morte e i laboratori sovietici

Gruinard Island, una macchia di terra scozzese, divenne sinonimo di morte invisibile. Qui, durante il conflitto, gli scienziati britannici sperimentarono l’uso dell’antrace come arma batteriologica. Le pecore morirono in pochi giorni. Il terreno rimase contaminato per quasi mezzo secolo. La guerra chimica era già cominciata e nessuno sembrava intenzionato a fermarla.

Dall’altra parte del continente, l’Unione Sovietica finanziava progetti che sembravano partoriti da menti allucinate. Il biologo Il’ja Ivanov tentò di creare un ibrido uomo-scimmia, un soldato instancabile e insensibile al dolore. Il sogno di Stalin era un esercito di automi biologici, capaci di ubbidire senza pensare. Il progetto fallì miseramente, ma resta il segno di un’epoca che aveva perso ogni barlume di moralità.

Per approfondire

C’è un libro che apre senza timore coperchi rimasti troppo a lungo sigillati. Si tratta di LE SCOMODE VERITÀ NASCOSTE NELLA II GUERRA MONDIALE del Dott. Vincenzo Di Michele. Non è una semplice cronaca, ma un viaggio attraverso l’oscurità di un conflitto che ha segnato l’umanità. Si affrontano i temi scomodi, le verità che fanno male e che pochi hanno il coraggio di raccontare.

Il Dott. Di Michele raccoglie testimonianze, documenti e riflessioni, mostrando con chiarezza le ombre che hanno avvolto anche le cosiddette “nazioni civilizzate”. Tra i capitoli più intensi, proprio quello sugli esperimenti umani: pagine che inchiodano la coscienza e obbligano a guardare negli occhi l’orrore.

LE COLPE E LA VERGOGNA DI TUTTO IL POPOLO TEDESCO NEI CRIMINI DEI NAZISTI: SAPEVANO TUTTO E ANCHE LORO PARTECIPARONO AL GENOCIDIO DI MASSA DEGLI EBREI

12 Marzo 2025

Mi sono limitato a obbedire agli ordini È la frase che risuonò più e più volte nelle aule dei processi del dopoguerra, come una cantilena recitata da uomini che cercavano di sottrarsi alle proprie responsabilità. Ma è davvero possibile ridurre a un semplice atto di cieca obbedienza il coinvolgimento di un intero popolo nei crimini più efferati della storia? Sapevano e hanno taciuto? Oppure hanno scelto di non sapere?

Durante gli anni del Terzo Reich, la propaganda e il terrore si intrecciarono in un meccanismo perfetto: un sistema in cui il consenso si otteneva attraverso il controllo dell’informazione e l’uso strategico della paura. L’ideologia nazista non si impose con la sola violenza, ma si diffuse come un veleno sottile, insinuandosi nelle coscienze, normalizzando l’orrore, trasformando uomini comuni in ingranaggi di un progetto di sterminio.

Il male non ha sempre il volto di un tiranno, né si manifesta solo nei bunker dove si decidono le sorti di milioni di vite. A volte il male è silenzioso. Si annida nelle stanze delle alte sfere, dove si stappa champagne mentre fuori si muore, ma anche nelle strade delle città, nelle case, nei cuori di chi preferisce guardare altrove. È la complicità della normalità che rende possibile l’orrore.

Questa è una storia scomoda, una di quelle che spesso restano ai margini della narrazione ufficiale. Ma le verità nascoste, prima o poi, trovano sempre il modo di venire a galla.

A riaprire questo vaso di Pandora è LE SCOMODE VERITÀ NASCOSTE NELLA II GUERRA MONDIALE di Vincenzo Di Michele, un libro che non si accontenta delle versioni ufficiali e che non teme di affondare le mani nella polvere del passato. Pagina dopo pagina, il velo cade, rivelando fatti che non fanno sconti a nessuno. Per chi crede di sapere già tutto sulla Seconda Guerra Mondiale, questa lettura è una doccia gelata. E per chi ha il coraggio di affrontare la realtà senza filtri, è un viaggio da cui non si torna indifferenti.

La complicità del popolo tedesco

Non è un mistero che un’ideologia, per sopravvivere, ha bisogno di consenso. Ma quando quel consenso si ottiene attraverso il controllo capillare delle menti, il confine tra accettazione e manipolazione si fa sottile. La Germania nazista fu un laboratorio perfetto di condizionamento di massa. Non servivano solo le armi, serviva costruire un pensiero unico, soffocando il dissenso prima ancora che potesse nascere.

Dalla cattedra di un professore alle pagine di un giornale, dai palchi delle adunate fino ai banchi di scuola, la propaganda era ovunque. Ogni parola, ogni immagine, ogni discorso aveva un obiettivo preciso: creare una realtà fittizia in cui il regime appariva come l’unica via possibile. I tedeschi vedevano crescere la propria nazione, vedevano il lavoro tornare, i salari aumentare, il benessere tornare dopo anni di stenti e il prestigio del Paese risollevarsi dalle ceneri della Prima Guerra Mondiale. E quando un popolo affamato si trova improvvisamente con il piatto pieno, è più facile che chiuda gli occhi su come quel cibo sia arrivato sulla tavola.

Ma c’era di più. La paura era il collante che teneva tutto insieme. Chi alzava la testa, chi osava dubitare, chi non applaudiva abbastanza forte rischiava di sparire, inghiottito nel buio di una cella o spedito nei campi di rieducazione. La gente imparò a tacere, a non fare domande, a non guardare oltre la cortina di fumo che avvolgeva le atrocità del regime. Il terrore diventò abitudine, il silenzio una forma di autoconservazione.

Eppure, le voci circolavano. Si sapeva, ma si faceva finta di non sapere. I treni che partivano carichi di uomini, donne e bambini diretti verso l’ignoto non passavano inosservati. I racconti dei soldati in licenza, le dicerie sussurrate nei mercati, le lettere giunte dal fronte, tutto suggeriva che dietro il velo della propaganda si stesse consumando qualcosa di spaventoso. Ma l’apparato nazista aveva costruito una società in cui anche il solo porsi delle domande poteva diventare un pericolo. E così, mentre la macchina della morte girava senza sosta, molti si limitarono a guardare altrove.

Le SS e il culto della ferocia: uomini forgiati per uccidere

Se il Terzo Reich aveva bisogno del consenso del popolo, per eseguire gli ordini più atroci servivano uomini disposti a tutto. Non semplici soldati, ma esecutori addestrati a spegnere ogni empatia, a considerare l’orrore una semplice routine. Le SS nacquero con questo scopo: trasformare uomini comuni in strumenti di morte.

Non si entrava a far parte di questa macchina infernale per caso. Bisognava incarnare l’ideale del perfetto tedesco, essere alti, sani, puri di sangue. Il matrimonio? Concesso solo dopo un’attenta selezione genealogica. La famiglia stessa diventava un’estensione del Reich. Un’istituzione controllata, studiata, approvata. Un uomo delle SS non apparteneva a sé stesso, ma al progetto nazista.

Ma non bastava la selezione. Bisognava eliminare ogni residuo di umanità. L’addestramento non si limitava alle armi. Ogni recluta veniva sottoposta a una costante opera di disumanizzazione. Nessuna debolezza era tollerata. Nessuna esitazione era ammessa. Uccidere, punire, torturare: il dolore altrui doveva diventare irrilevante.

E così, giorno dopo giorno, il sangue versato non era più un crimine, ma un dovere. Fucilare, deportare, sterminare: tutto eseguito con disciplina ferrea, senza domande, senza esitazioni. Anzi, per molti, quasi con orgoglio. Un’aberrazione della mente umana, dove la crudeltà diventava una virtù e il fanatismo l’unica legge.

Fu questo esercito di spietati carnefici a rendere possibile il genocidio. Le SS non furono solo il braccio armato del nazismo: furono il suo cuore pulsante, il suo ingranaggio perfetto. Senza di loro, la follia di Hitler sarebbe rimasta solo un’idea.

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