Verità scomode della II guerra mondiale

Recensione de il giornale di Vicenza (Online) (PDF)

Storie scomode della Seconda Guerra Mondiale: le donne vittime silenziose del conflitto

Le guerre si vincono sul campo e si raccontano sulla carta dei vincitori. Tra le pieghe del Secondo Conflitto Mondiale, c’è un capitolo scritto con il sangue e il silenzio delle donne. Un capitolo che non trova spazio nei manuali scolastici, troppo scomodo, troppo brutale, troppo vero.

Si celebrano gli eroi, si glorificano le battaglie, si elencano i trattati di pace. Ma chi parla di loro? Di quelle donne trascinate via, ridotte a merce di scambio, usate e poi gettate via come vestiti logori? I vincitori si spartivano il mondo, mentre loro perdevano tutto: la dignità, la libertà, il diritto di esistere senza essere un corpo su cui sfogare frustrazione e violenza.

C’è chi queste storie le ha raccolte, ricostruite, riportate alla luce. Le Scomode Verità Nascoste nella II Guerra Mondiale dello storico Vincenzo Di Michele non è un libro per chi cerca rassicurazioni. È una lettura che brucia, che smonta certezze, che costringe a guardare negli occhi una realtà troppo a lungo insabbiata. Non è solo Storia, è Controstoria. Da questo libro abbiamo estratto alcune verità scomode che meritano di essere raccontate e tramandate.

Prostitute, schiave e vittime di un sistema spietato

La Seconda Guerra Mondiale non è stata solo trincee e bombardamenti, ma un teatro di atrocità dove i corpi delle donne diventavano bottino di guerra. Nessuno si tirava indietro. Nazisti, giapponesi, alleati… tutti, in un modo o nell’altro, si sono sporcati le mani.

I bordelli militari non erano certo una novità, ma quello che accadde tra il 1939 e il 1945 superò ogni limite. Le prostitute non erano più persone, ma strumenti di controllo, oggetti di piacere per uomini che marciavano con un’idea di purezza razziale in testa e una brutalità senza confini nelle vene. In Germania, i soldati erano obbligati a usare il preservativo, subivano controlli sanitari e persino iniezioni disinfettanti nei genitali. Le donne, invece, venivano lasciate a marcire, condannate a una vita di sfruttamento e malattie.

La Polonia divenne un mattatoio. Le donne polacche erano considerate inferiori, dunque qualsiasi violenza su di loro non era solo permessa, ma incoraggiata. Abusi di gruppo, rastrellamenti, torture. C’erano regole non scritte: se una donna veniva infettata da una malattia venerea, la sua vita non valeva più niente. Nella città di Bromberg, 38 prostitute vennero massacrate in un solo giorno. Troppo rischioso curarle. Troppo pericoloso lasciarle in vita. Un problema da risolvere con una pallottola in testa.

E poi c’erano gli esperimenti. Corpi femminili usati come cavie per testare ogni tipo di aberrazione. Alcune venivano sterilizzate senza anestesia, altre venivano infettate deliberatamente per studiare gli effetti delle malattie. Un laboratorio di orrori, una discesa negli abissi più profondi della crudeltà umana.

Senza ombra di dubbio, la guerra non è mai stata solo una questione di armi. È stata, prima di tutto, una macchina che ha divorato tutto ciò che trovava sul suo cammino. E tra le sue vittime più dimenticate ci sono loro: donne che non combatterono mai, ma che furono sconfitte ogni giorno, senza mai avere possibilità di arrendersi.

L’orrore sul fronte orientale e i bordelli militari giapponesi

Se l’inferno avesse avuto un volto, avrebbe portato il nome delle “donne di conforto“. Un’espressione grottesca, un paravento lessicale dietro cui si nascondeva un sistema mostruoso. Il Giappone non si limitò a invadere territori, ma razziò anche i corpi delle donne, trasformandoli in strumenti di piacere per i suoi soldati.

Era un progetto studiato a tavolino. L’esercito imperiale non poteva permettersi troppi stupri casuali: il rischio era che l’odio delle popolazioni locali esplodesse in ribellioni incontrollabili. Meglio “organizzare” la questione. Così nacquero i bordelli militari, disseminati nei territori occupati. Più di 200.000 donne furono ingannate, strappate alle loro case con false promesse di lavoro. Fabbriche? Servizi domestici? Nulla di tutto questo. Una volta arrivate a destinazione, venivano incarcerate e costrette a subire decine di abusi al giorno.

Nessuna speranza di fuga, nessuna possibilità di rifiutarsi. Le porte dei bordelli si aprivano solo per lasciar entrare nuovi soldati. I dottori dell’esercito giapponese passavano per controlli sanitari, ma non erano lì per aiutare. Molte di loro furono abusate persino dai medici, vittime di un circolo vizioso senza via d’uscita.

C’erano poi i rastrellamenti nelle campagne. I comandi militari pretendevano che i governanti locali fornissero donne ai soldati, come fossero parte del bottino di guerra, alla stregua di armi e rifornimenti. Per chi cercava di ribellarsi, la punizione era immediata. Uccisioni sommarie, torture, rappresaglie sulle famiglie.

E chi sopravviveva? Le cicatrici non erano solo nel corpo, ma nell’anima. Alcune persero la fertilità a causa degli abusi ripetuti e delle malattie. Molte morirono nel silenzio. Quelle che riuscirono a tornare a casa si trovarono davanti un altro nemico: l’emarginazione. Nessuno voleva ascoltare le loro storie. Nessuno voleva riconoscere la loro sofferenza.

La disperazione delle donne tedesche nel dopoguerra

La guerra si era conclusa, ma per molte donne tedesche un incubo peggiore era appena cominciato. Le città ridotte in macerie, gli uomini falciati al fronte, la fame che divorava le strade. E poi c’erano loro: le sopravvissute, lasciate sole a ricostruire, con nulla in mano e troppo da dimenticare.

Ma il bisogno non lascia scelta. Chi aveva figli da sfamare non poteva permettersi il lusso dell’orgoglio. Non si trattava più di patriottismo, né di politica. Era la fame a dettare le regole. Così, mentre i vincitori marciavano per Berlino con le loro divise immacolate, le donne tedesche imparavano che la loro unica moneta di scambio era il proprio corpo.

Non servivano trattative, né promesse. Calze di nylon, qualche sigaretta, un pezzo di cioccolato. Tanto bastava. Gli Alleati distribuivano preservativi, ma la realtà non si fermava alla propaganda. Le gravidanze aumentavano. Gli aborti clandestini mietevano vittime quanto le bombe. Alcune morivano dissanguate, altre lasciavano i neonati nei vicoli, sperando che qualcuno li trovasse prima dei topi.

E poi c’era il disprezzo. Quelle donne non erano vittime, non nella narrazione ufficiale. Erano “puttane del nemico”, marchiate con un’etichetta che non si sarebbe più scollata di dosso. Le famiglie le ripudiavano, le comunità le isolavano. Nessuno si chiedeva cosa significasse trovarsi in quella posizione. Nessuno voleva sapere. Il giudizio era più facile della comprensione.

Le violenze sulle donne italiane: la tragedia dimenticata

Le violenze subite dalle donne italiane per mano delle truppe coloniali francesi rappresentano una delle pagine più oscure del dopoguerra. Un’ombra lunga, silenziosa, soffocata dal pudore e dalla paura.

Tutto iniziò nel 1943, con l’avanzata degli Alleati lungo la penisola. A fianco degli eserciti che promettevano la liberazione, c’erano loro: i reparti marocchini dell’esercito francese, soldati senza regole, uomini lasciati liberi di sfogare i propri istinti su un popolo che non aveva più nulla con cui difendersi. Arrivati in Ciociaria, si trasformarono in predatori. Paesi interi vennero saccheggiati, uomini uccisi, donne stuprate senza pietà.

A Esperia, una cittadina ridotta in cenere dalla guerra, 700 donne furono violentate in pochi giorni. Madri, figlie, bambine. A Vallemaio, due sorelle e un’anziana di sessant’anni vennero costrette a soddisfare un intero plotone di soldati. Chi cercava di difendersi finiva massacrato. Chi non cedeva subito veniva preso con la forza. Nessuno era al sicuro.

Il fenomeno fu così vasto che servì persino un nome per definirlo: “le marocchinate”. Un termine che racchiude anni di dolore, famiglie distrutte, esistenze segnate per sempre. Molte donne rimasero incinte, ma nessuno era disposto ad accettare quei figli. Gli aborti clandestini si moltiplicarono, le malattie veneree si diffusero come un’epidemia. Chi sopravvisse portò dentro di sé ferite invisibili, ma impossibili da rimarginare.

Questa non fu una semplice “conseguenza della guerra”. Fu un crimine taciuto, accettato, quasi giustificato. I comandi francesi lo sapevano, gli alleati ne erano consapevoli, ma nessuno mosse un dito. Qualcuno cercò di fermarli, ma venne zittito in fretta. I soldati avevano vinto una battaglia dura, e per loro lo stupro era parte del premio.

Senza ombra di dubbio, il silenzio è stato il secondo crimine commesso contro queste donne. La guerra è finita, ma per loro la giustizia non è mai arrivata. Solo dolore, vergogna e la certezza di essere state abbandonate.

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